Nei due episodi precedenti, siamo idealmente saliti a bordo di due piroscafi. Quello di Ejzenštejn, la famosa Corazzata Potëmkin, ci ha portato ad Odessa. Quello di Film Socialismo, di capitan Jean-Luc Godard, ci ha fatto approdare ad Algeri. Per andare a Taipei abbiamo bisogno d’un altro mezzo. Non si tratta tanto di spostarsi nello spazio, quanto piuttosto di attraversare il tempo. C’è una Taipei che risale agli aborigeni che abitavano l’isola di Taiwan quando i portoghesi vi sbarcano nel 1517, dandole il nome di «Formosa», bella. C’è una Taipei colonizzata dai Giapponesi, che si impadroniscono dell’isola nel 1894 e la occupano per cinquant’anni. Nel 1945, quando l’occupazione finisce, il Kuomintang di Chiang Kai-shek, sconfitto sul continente nella guerra civile con i maoisti, ripiega su Taiwan. Circa un milione e mezzo di nuovi abitanti si stabilisce su un’isola che ne conta sette. Nei quattro anni che seguono, la tensione tra i nazionalisti cinesi e la popolazione locale sfocia in scontri e repressioni che si concludono con la proclamazione della legge marziale. Dal 1949, Taipei è ufficialmente la capitale della Repubblica Cinese, uno stato che si è lentamente democratizzato a partire dagli anni 1990. Oggi, ad accogliere la presidente del parlamento nordamericano Nancy Pelosi c’era la prima ministra Chen Chien-jen, una donna eletta tra le fila del PDP, il partito opposto al Kuomintang.

La redazione consiglia:
Odessa, un set a cielo aperto per l’incontro di due mondi Tutti i film del cinema taiwanese si confrontano con l’accumulazione di questo tortuoso passato. E soprattutto con la continua repressione della cultura indigena che ogni nuovo arrivato ha negato per imporre la propria narrativa. Ora, il cinema non si limita ad entrare nella storia, è a sua volta parte integrante di essa. C’è negli anni ’50 un cinema mandarino che è diretta emanazione del governo. C’è poi un cinema di genere che si intreccia con quello di Honk Kong.

Storie del tempo che passa» (1982) di Yang, Chang, I-Chen e Te-Chen

QUELLO in lingua taiwanese nasce e si sviluppa lottando contro le lingue degli occupanti: il giapponese prima del 1945, il mandarino dopo. Per tutto il primo dopoguerra, la lotta è impari. È solo con la Nouvelle vague degli anni ’80 che il taiwanese si impone infine, producendo al tempo stesso una delle più stupefacenti cinematografie del mondo.
Per visitare la Taipei cinematografica, due «monumenti» sono inaggirabili. Il primo è Storie del tempo che passa (1982), del collettivo formato da Edward Yang, Yi Chang, Ko I-Chen e Tao Te-Chen. Le circostanze, più che rocambolesche, della fabbricazione di questo film sono raccontate dallo sceneggiatore Xiao Ye e meriterebbero a loro volta di finire sul grande schermo. Come per la Nouvelle vague francese, anche quella di Taiwan è costituita da giovani che rifiutano la gavetta d’aiuto-regista che l’industria impone, e si coalizzano per girare immediatamente un loro film. L’altro «monumento» è per certo The Sandwich Man, il film del 1983 di Hou Hsiao-hsien, Zeng Zhunangxiang e Wan Ren. Fin dalla prima inquadratura, c’è subito una data: 1962, e un uomo vestito da clown che avanza lentamente su una strada bruciata dal sole. La sequenza è filmata con un teleobiettivo che schiaccia l’uomo sandwich contro le case sul fondo. L’integralità dell’immagine è ricoperta di ideogrammi. È forse quest’inquadratura quella che cristallizza l’immagine per eccellenza di Taipei: una città ideogramma. Il viaggio attraverso Taipei è un’esperienza che scaturisce, alla lettera, dalla scrittura – come il personaggio del clown avanza faticosamente senza mai distaccarsi dagli ideogrammi che lo circondano.Hou Hsiao-hsien, Zhunangxiang e Wan Ren raccontano una città-ideogramma Venti anni dopo, nel suo film più compiuto, Hou Hsiao-hsien concepisce l’intero viaggio per arrivare alla Taipei contemporanea come un percorso attraverso il tempo e la scrittura. Il film si chiama Zui hao de shi guang (2005), alla lettera vuol dire «il momento migliore», ma in Occidente è noto con il titolo inglese Three times, ovvero tre tempi. Con il primo episodio del film, «Un tempo per amare», entriamo in un biliardo di Kaohsiung City. Anche qui, c’è subito una data: 1966. Ma l’evento non è la rivoluzione culturale di Mao o la visita del presidente degli Stati uniti. L’evento è che un giovane di nome Chen (Chang Chen) entra in un biliardo e incontra May (Shu Qi). Nel secondo torniamo indietro al 1911, all’occupazione giapponese, in un’elegante casa di piacere. Infine, il terzo episodio mette in scena ancora una volta la stessa coppia di attori, ma nella Taipei di oggi (al tempo del film, il 2005). Il filo conduttore di queste tre storie è il mistero della scrittura, che è al tempo stesso l’ostacolo e il vettore dei tre melodrammi. Una scrittura che non cessa di cambiare di supporto, dalla carta da lettera nel 1966, alle legende della parte muta del 1911, fino alle «ombre elettriche» che danzano sugli schermi dei telefoni cellulari del 2005, e che in tutti e tre i casi oscilla senza sosta tra il disegno e il codice, come i graffiti sui caschi all’inizio del terzo episodio, senza essere completamente né l’una né l’altra. Sempre uguale in apparenza, al tempo stesso moderna e arcaica tanto d’inchiostro che in digitale, la scrittura è, nella sua uniformità, sempre portatrice di un’infinità singolarità. Proprio come le storie delle coppie di Three times.

CHI ARRIVA a Taipei oggi potrebbe stupirsi di quanto questa città sembri simile a tante altre moderne metropoli dell’estremo est. Certo, Taipei ha i suoi monumenti veri e propri. Il suo simbolico grattacielo dalla forma di bambù che prende il nome dal numero dei suoi piani: 101. Il gigantesco museo nazionale in cui vengono conservati migliaia di artefatti della Cina imperiale. I suoi templi buddisti. Ma l’incredibile ricchezza di storie, di culture, di drammi, di eventi di cui la città è stata testimone sembrano invisibili. All’inizio di Taipei story, il film di Edward Yang del 1985 in cui Hou Hsiao-hsien stesso recita il ruolo maschile di Lung, Chin (Tsai Chin) e il suo collega architetto M. Ke (Ko I-Chen) camminano nei piani alti d’un ufficio da cui si domina la città. D’un tratto, Ke dice: «Guarda questi palazzi, non saprei dire quelli che sono stati disegnati da me e quelli che sono stati disegnati da altri. Sembrano tutti uguali». È stato il compito che la Nouvelle vague di Taiwan si è data: strappare la storia alla monumentalità, reinscriverla nell’esistenza umana, restituirla alla memoria effettiva di quella che lo scrittore Bai Xianyong chiamava semplicemente la «gente di Taipei».

Un'opera in parte perduta
La riscoperta del cinema in lingua taiwanese precede di qualche anno la nascita della Nouvelle vague. La cineteca di Taiwan viene fondata nel 1979 con l’intento di salvaguardare e restaurare un gran numero di pellicole solo pochi anni prima disprezzate. Tra l’inizio degli anni ’40 e il 1970, i film prodotti in lingua taiwanese sono circa mille, un quinto della produzione totale. Sono film fabbricati da piccoli studios indipendenti in condizioni difficili, senza alcun aiuto da parte del governo e che in generale non godono di buona reputazione critica. Oggi ne rimangono più o meno 200. Una gran parte di quella storia è persa per sempre. È così per l’intera opera del cineasta Ho Gi Ming, in parte dedicata a documentare la resistenza all’occupazione giapponese. La Nouvelle vague si situa in una posizione di mezzo. Da un lato, grazie al suo successo, riesce infine ad imporre la lingua taiwanese sul grande schermo. Dall’altro, si tratta di un movimento che nasce dall’interno stesso dell’industria nazionale e sfrutta in un primo tempo gli organismi di produzione e di promozione del Kuomintang.