Dal tram numero 11, l’edificio si nota subito. È una elegante e lunga struttura industriale in mattoni rossi che si estende orizzontalmente e cattura lo sguardo, ergendosi fra case più basse e dall’aspetto dimesso.

Il mercato di Vidzeme ha una lunga storia, che racconta anche il rapporto fra centro e periferia nella città lettone alla fine del XIX secolo. Fu creato, infatti, per facilitare l’acquisto di generi alimentari agli abitanti di Riga che non vivevano negli storici palazzi della old town (quel gioiello architettonico costituito da un dedalo di viuzze al di qua del fiume Daugava, sfoggiando un mix di stili che ha indotto l’Unesco a inserirlo nel 1997 fra i «patrimoni dell’umanità»). E per diversi anni è cresciuto, aggiungendo padiglioni su padiglioni fino ad approdare al Novecento.

La sua fisionomia è stata disegnata dall’architetto Reinhold Schämaling e nei decenni ha vissuto molte peripezie: è stato ferito da un incendio, poi dalla crisi economica e dal suo spopolamento: tutta l’area copre circa 20mila mq e oggi l’edificio del mercato è gestito dal governo municipale.

Per un suo – auspicato da più parti – rilancio richiederebbe cospicui investimenti; così, invece di lasciarlo languire abbandonato nei suoi padiglioni vuoti, parte del Vidzeme market è diventata la potente location del festival di arte contemporanea Survival Kit 14.

E non ci poteva essere spazio migliore per accogliere la rassegna lettone (che vede anche una sua propaggine a Kaunas, in un ex ufficio postale, con molti degli artisti presenti in entrambe le sedi): il mercato, «hub» di scambi e intrecci di culture per suo dna, si è trasformato in una enorme casa creativa, deputata per l’allestimento di una mostra che mescola diverse cronologie (passato presente e futuro) intitolata Long distance Friendships (amicizie a distanza).

A cura di Alicia Knock e Inga Lace, le due mostre «sorelle» di Riga e Kaunas investigano possibili mondi alternativi per la sopravvivenza politica, sociale e culturale della nostra specie.

All’inizio, Survival Kit non era un festival, era semplicemente un modo vivace di rimettere in gioco luoghi svuotati dalla crisi del 2008 (vetrine, negozi, locali) ma poi è diventato una «tradizione» ineludibile, spiega Solvita Krese, fondatrice della kermesse e direttrice del Latvian Centre for contemporary art. E un mercato, che tiene in vita ancora la sua funzione seppure in forma minore, «si sposa molto bene con il tema scelto per quest’anno. Offre una sorta di prospettiva metaforica per la mostra sulle amicizie ’lontane’, a lungo termine tra l’Europa dell’Est e l’Africa. Probabilmente molti di noi, quando vanno al mercato e acquistano banane, arance o frutti esotici, si fermano a pensare almeno per un momento a chi li coltivi veramente».

«Il nostro mercato è, per sua natura, un luogo – continua la curatrice Alicia Knock – in cui numerose comunità si danno appuntamento, è un hub della diversità. Le comunità afroamericane, ucraine, bielorusse, russe sono, in qualche modo, sempre presenti perché si riuniscono per acquistare beni e prodotti fra i più svariati. Soprattutto dopo l’intervento su vasta scala della Russia in Ucraina, quando assistiamo alla polarizzazione conflittuale tra differenti comunità, credo che riunirsi e discutere tenendo a mente questa amicizia ’a lungo termine’ (o di lunga distanza) sia particolarmente importante». Attriti, visioni molteplici, polifonie di voci.

Kus! Comics, «The Congress of Ghosts»

Il festival ha lanciato una capillare rete internazionale, in un dialogo permanente con la Biennale di Kaunas e anche con Lubiana e le sue indagini africane, cui la rassegna di arti grafiche, dislocata all’interno di un ex zuccherificio, si affida quest’anno grazie alla guida del ghanese Ibrahim Mahama.

Non indifferente poi, il programma educativo che accompagna Survival Kit 14 con gli artisti nelle scuole e «infiltrati» in ogni realtà locale, così da non trasformare un evento culturale in un’astronave di alieni che piomba, sconosciuta, fra gli abitanti e i fruitori della città lettone. Una sensazione ben rappresentata dall’installazione di Jeanne Kamptchouang, natali in Camerun, con la sua conferenza «interrotta» da sedie spezzate e riassemblate, totalmente non confortevoli, a testimoniare il disagio della estraneità).

A giudicare dall’affollata inaugurazione, che non contemplava solo gli «addetti ai lavori», dalle performance che si sono succedute attirando un nutritissimo pubblico, dal parterre di giovani e bambini, l’esperimento (a ingresso gratuito e dunque per tutti) è perfettamente riuscito.

Il cuore dell’esposizione, che vede molti artisti confrontarsi con un métissage di radici identitarie e un imprinting culturale composito, è la ricerca di quel network di connessioni nato fin dagli anni 60 e 70 fra l’Africa e i «paesi amici», soprattutto l’allora Unione sovietica, che pagava studi e residenze all’estero per la formazione.

Natalie Perkof è un’artista ceca con padre ghanese. Il suo Cabinet of Miniature and Delight attraverso una serie di collage che utilizzano un materiale industriale africano, si interroga sulla sessualità femminile, sui retaggi del pregiudizio e sulla percezione di sé e della propria diversità.

«I miei genitori si sono conosciuti proprio durante questi scambi studenteschi fra Africa e paesi dell’ex blocco sovietico. Mia madre proviene da un piccolo villaggio ceco, dove sono cresciuta, essendo l’unica persona non uguale alle altre. Sono cominciate da qui le domande sulle mie radici africane, su cosa significhi – essendo nera – vivere in un contesto agricolo e rurale in cui il folklore locale è una realtà viva e anche io, in varie occasioni, indossavo i costumi tradizionali del luogo. Ho trasposto le mie questioni aperte sulle tele reperendo però il materiale in Ghana, mantenendo così un legame affettivo con la terra dove è nato mio padre».

«Imprints» di Inga Erdmane

Inga Erdmane ha iniziato la sua ricerca negli archivi, documentando le «traiettorie umane», attraverso gli spostamenti e le migrazioni degli individui, tracciate dal rapporto fra Europa orientale, Cuba e Africa.

In quella cartografia politica e naturalmente anche ideologica, che disegnava gli scenari di una globalizzazione alternativa, rispondendo alla guerra fredda con gli Stati uniti, i principali protagonisti del suo progetto sono rappresentanti di varie nazionalità trasferitisi in Lettonia, spesso con alle spalle studi a Mosca, e che si sono dovuti adattare al nuovo ambiente.

Erdmane reperisce informazioni e immagini frugando in album di famiglia e facendo interviste (che trascrive fedelmente in tre lingue, lettone, russo e inglese); sulle bianche mattonelle dei banchi del mercato sfilano volti e storie intime e collettive. Il confine tra il materiale originale e quello creato artificialmente, è sfumato, intrecciando verità e finzione.

Anche Angela Ferreira (portoghese nata in Mozambico e cresciuta in Sudafricana) mescola i piani immaginari e quotidiani con il suo meraviglioso tributo alla radio indipendente che combatteva per la libertà in Algeria.

Nel mercato si diffonde la voce degli attivisti e la scultura-megafono in stile costruttivista è a sua volta un omaggio al designer d’avanguardia lettone Klucis (Klucis va in Algeria il titolo), un «plot» inventato che unisce due mondi ispirandosi alle relazioni simboliche e reali tra due lotte anticolonialiste, quelle delle culture dell’est Europa e quelle africane.