Tre minuti in coda al discorso programmatico per liquidare l’immigrazione con proposte vecchie e difficilmente realizzabili. Mentre il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si preparava a bloccare due navi delle ong, alla Camera Giorgia Meloni rispolvera idee che in sei anni di cosiddetta «emergenza immigrazione» l’Unione europea ha discusso e sperimentato, salvo poi archiviarle quasi tutte proprio perché inattuabili. Proposte avanzate sempre in nome di una presunta «lotta agli scafisti» ma che, puntualmente, hanno sempre finito per colpire i migranti.

Ed è proprio da lì, dal contrasto alle organizzazioni criminali che speculano sulla disperazione dei migranti che ovviamente la premier parte. «Il nostro obiettivo è impedire che sull’immigrazione l’Italia continua a farsi fare la selezione dagli scafisti», consentendo gli ingressi solo attraverso il decreto flussi. Pochi dubbi sul come fare:_«Se non volete che si parli di blocco navale lo dirò così:dobbiamo recuperare la proposta originaria della missione navale Sophia dell’Unione europea che nella terza fase prevista, anche se mai attuata, prevedeva il blocco delle partenze dei barconi dal Nord Africa». Quello che Meloni non dice sono gli ostacoli incontrati dalla missione Ue (che in cinque anni di attività ha comunque salvato più di 45 mila uomini, donne e bambini). Ostacoli principalmente politici.

Per poter portare a termine il suo mandato, che nella terza fase prevedeva l’ingresso nei porti libici per affondare le imbarcazioni degli scafisti, erano infatti necessarie condizioni precise: un mandato dell’Onu e l’autorizzazione del governo libico senza la quale ogni azione sarebbe stata interpretata come un atto di guerra. Dalle Nazione unite non è mai arrivato il via libera, ma la difficoltà principale si è avuta nell’impossibilità di fare riferimento a un’autorità libica riconosciuta.

All’epoca, era il 2015, la Libia era divisa tra il governo di Tripoli, guidato dal premier al Serraj e sostenuto dall’Italia, e quello di Bengasi fedele al generale Haftar appoggiato dall’Egitto. Stringere un accordo con uno dei due avrebbe provocato la reazione dell’altro. Oggi la situazione è molto più complicata. La Libia è un Paese spaccato in tre tra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, con almeno due governi e tre parlamenti e qualcosa come 700 milizie che si fronteggiano. E come se non bastasse con la presenza ingombrante di Turchia, Russia ed Egitto. Trovare una soluzione che metta d’accordo tutti è praticamente impossibile. Finirà, purtroppo, con il solito sostegno di mezzi e soldi alla Guardia costiera libica perché continui a riportare i migranti nel centri di detenzione.

Poi ci sono gli hotspot in Africa. Meloni ne ha parlato anche ieri alla Camera spiegando che dovranno essere gestiti dalle organizzazioni umanitarie e dovranno servire a vagliare le richieste di asilo. «Per distinguere chi ha diritto a essere accolto n Europa e chi quel diritto non ce l’ha», ha spiegato. Anche in questo caso nulla di nuovo. Era il 2018 quando la Commissione europea propose di far sbarcare i migrati in «piattaforme regionali» gestite dall’Onu in collaborazione con l’Ue, di fatto hotspot da collocare lungo le coste del nord Africa dove separare i migranti economici dai richiedenti asilo. Qualcosa di molto simile la propose anche l’allora ministro degli Esteri Moavero Milanesi, preferendo però chiamarli «centri di assistenza, informazione e protezione» dei migranti. Non se ne fece nulla. Il primo ad avanzare qualche resistenza fu il presidente francese Emmanuel Macron, ma non fu l’unico. All’epoca il «Guardian» riferì della contrarietà espressa dall’Unione africana, secondo la quale il progetto violava il diritto internazionale secondo il quale le richieste di protezione vanno presentate nei Paesi ai quali si intende chiedere asilo.

Infine i fondi all’Africa. Meloni ha parlato di un non meglio specificato «piano Mattei» (il riferimento è a Enrico Mattei) di investimenti. «Un modello virtuoso di collaborazione e di crescita tra Unione europea e nazioni africane». Sorvolando sul fatto che da anni l’Ue investe in progetti di sviluppo in Africa, va detto che comunque servirebbero anni per vedere i primi risultati. E a chi le ha ricordato che non si tratta di una novità, ieri la premier ha risposto con sicurezza: «Dite che c’è già stato? Allora non è quello cui penso io. Parlo da tempo con diverse organizzazioni di patrioti africani e neanche loro se ne vogliono andare da casa».