Come in un cupo dramma di ispirazione luterana o in un severissimo film di Margarethe von Trotta, ancora una volta il male riproduce fatalmente il male. L’orrendo assassinio di Luca Varani, commesso da Marco Prato e Manuel Foffo, ha generato nuovo dolore e strazio.

Tragedia che si somma a tragedia. Con il suicidio di Marco Prato, avvenuto nella notte tra lunedì e martedì, in una cella del carcere di Velletri, sembra non aver fine questo intollerabile scialo di morte. Abbiamo scritto «fatalmente», ma il fato non può tutto senza il contributo degli umani e, nel caso in questione, quello offerto dall’amministrazione penitenziaria è stato davvero rilevante.

A leggere la sua lettera di congedo, Marco Prato – probabilmente – si sarebbe ucciso comunque, a Regina Coeli come a Velletri: non sopportava l’accusa che gli era stata rivolta, la responsabilità attribuitagli, la sua pubblica rappresentazione. Ma ciò non esime dall’individuazione di quei fattori che possono aver incentivato la sua determinazione a farla finita e a sottrarsi a un nuovo giudizio penale e mediatico. Tra questi fattori, particolare peso sembra aver avuto quello sottolineato molto opportunamente dal Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma. Secondo quest’ultimo, per ben due volte Prato è stato trasferito dal carcere di Regina Coeli a quello di Velletri contro la sua volontà. E la seconda volta con una motivazione che il Garante, con pudore istituzionale, ha definito paradossale: «La permanenza in questo Istituto – scriveva un dirigente di Regina Coeli – è ormai un fattore a favore del soggetto che gli permette di adattarsi e crearsi un ambiente favorevole».

Dunque, la possibilità di crearsi un ambiente favorevole a Regina Coeli sarebbe stato l’argomento decisivo per il trasferimento altrove del detenuto. Evidentemente perché un recluso non può trovarsi a suo agio in una prigione, dal momento che «un ambiente favorevole» deve essergli comunque negato.

C’è da trasecolare, tanto più se si tiene conto che Prato già in passato aveva tentato il suicidio e che nel carcere di Velletri la cosiddetta «articolazione psichiatrica» semplicemente non esiste. Di conseguenza, Regina Coeli avrebbe potuto offrire al giovane una maggiore possibilità di tutela. Insomma, c’è una responsabilità ben precisa e non eludibile che fa capo all’Amministrazione penitenziaria.
Il Garante, per una questione di stile, non indica nome e ruolo di chi abbia argomentato in quel modo scellerato la decisione di trasferimento di Prato. Ma non è difficile intuirli.

Chiediamo, dunque, che sia reso noto il documento in cui sono contenute quelle parole e che, qualora ne sia confermata l’attribuzione alla direzione del carcere e al provveditorato regionale, si disponga immediatamente la sospensione di quei dirigenti. Non si può consentire che organismi che svolgono compiti tanto cruciali e delicati siano ancora diretti da chi ha dato prova di simile tragica spensieratezza.

Un’ultima considerazione. Nel comunicato del Garante, così come nella lettera sopracitata dell’Amministrazione e, più in generale, in tutta la letteratura carceraria, ricorre frequentemente la categoria di «trattamento». Di essa si possono dare varie accezioni e interpretazioni, una delle più acute è quella proposta da Giovanni Maria Flick che, sulla scorta di quanto previsto dalla Carta Costituzionale, così scrive: in una «formazione sociale coatta», come è il carcere, «l’inviolabilità dei diritti, in funzione dello sviluppo della personalità, diviene profilo ancor più intenso e complesso».

Ecco, dunque, apparire chiaro come quelle terribili parole dell’amministrazione non esprimano solo l’ottusità di una burocrazia stolida, ma rappresentino piuttosto il ribaltamento «illegale» di un principio costituzionale.