Il sodalizio Trump-Netanyahu procede come un bulldozer. Il premier israeliano, forte dell’appoggio della Casa Bianca – che ha appena presentato un «piano di pace» che offre a Israele buona parte della Cisgiordania occupata e relega i palestinesi un bantustan – non bada all’opposizione di varie parti internazionali alle mosse americane e raccoglie successi diplomatici dove meno te lo aspetti. Il ministero degli esteri israeliano ieri ha rispedito al mittente le critiche dell’Alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, che ha sottolineato come la soluzione proposta da Washington per Israele e palestinese si discosti dal diritto internazionale. Borrell ha avvertito che «I passi verso l’annessione (a Israele della Cisgiordania), se attuati, non potrebbero passare incontrastati», lasciando così immaginare possibili contromisure europee.

 

Netanyahu sa che l’Ue non è unita quando affronta la questione palestinese – Ungheria e Repubblica Ceca hanno impedito che l’Unione adottasse una posizione unita contro il piano Trump, depotenziando le critiche di Borrell – e si gode i risultati diplomatici ottenuti nelle ultime ore, durante il suo viaggio in Africa. A soddisfarlo non è solo la possibilità concreta che l’Uganda apra la sua ambasciata a Gerusalemme, dopo Stati Uniti e Guatemala. I rapporti tra Kampala e Tel Aviv vanno avanti dietro le quinte da decenni e ora si rafforzeranno alla luce del sole. Piuttosto è l’ipotesi che Israele normalizzi le relazioni con il Sudan, da decenni un accanito nemico. Lunedì a sorpresa il premier israeliano ha incontrato in Uganda anche il generale Abdel Fattah Al Burhan, capo del consiglio sovrano sudanese che lo scorso anno ha rovesciato Omar Al Bashir sull’onda di prolungate proteste popolari. I due, secondo i media israeliani, avrebbero deciso di stringere relazioni normali. Non è sfuggito che il clamoroso faccia a faccia sia avvenuto il giorno dopo l’invito a visitare Washington rivolto da Trump al generale Al Burhan e due giorni dopo la riunione al Cairo della Lega araba, di cui il Sudan fa parte, che ha respinto il «piano di pace» Usa.

 

Ma nulla accade per caso in Medio oriente. Già durante le manifestazioni contro Al Bashir era emerso l’appoggio aperto di Arabia saudita, Emirati e altre monarchie del Golfo – strette alleate degli Stati uniti e, in segreto, di Israele – al «desiderio di cambiamento» in Sudan, paese che aveva ottimi rapporti con l’Iran (ora congelati su richiesta di Riyadh pronta a generosi finanziamenti ai sudanesi) e manteneva una posizione di netta chiusura nei confronti di Tel Aviv. Al Burhan ha capito che il Sudan sarà rimosso in tempi relativamente brevi dalla lista nera di paesi considerati dagli Usa «sponsor del terrorismo», se si mostrerà disposto a voltare pagina con Israele. E infatti il segretario di Stato Mike Pompeo ha subito ringraziato Burhan per il suo passo verso la «normalizzazione dei legami con Israele». Il generale però avrebbe fatto tutto da solo. Il governo del Sudan non era stato informato e un portavoce ha detto che si attendono «chiarimenti». Gran parte dei sudanesi ritengono che la revoca delle sanzioni americane e internazionali sia un diritto legittimo del loro paese per il quale non dovrebbe essere pagato alcun prezzo politico.

 

I palestinesi considerano il meeting tra Netanyahu e Al Burhan un altro colpo basso ai loro diritti. Saeb Erekat, segretario generale dell’Olp, ha parlato di «pugnalata alle spalle», simile a quella inferta la scorsa settimana dagli Emirati che hanno applaudito al piano Trump. «Pugnalate» ne riceveranno ancora. Stando a quanto riferiscono i media israeliani, l’Amministrazione Trump sarebbe pronta a riconoscere unilateralmente l’occupazione del Sahara occidentale e a negare le rivendicazioni del popolo Sahrawi se il Marocco avvierà relazioni diplomatiche con Israele.