La protesta dei sudanesi contro il colpo di stato non cessa, nonostante l’accordo del 21 novembre tra il generale Abdel Fattah al Burhan, autore del colpo di stato militare del 25 ottobre, e il premier Abdallah Hamdok, in un primo momento arrestato dall’esercito e successivamente liberato e chiamato a guidare un nuovo governo. Da venerdì sera fino a ieri pomeriggio non meglio identificate forze di sicurezza che hanno lanciato candelotti lacrimogeni e usato manganelli contro i manifestanti chiamati in strada a Khartoum dal movimento Forces for Freedom and Change. Si tratta dell’alleanza di varie componenti della società civile che nel 2019 fu decisiva per rovesciare l’ex presidente Omar al Bashir. Tra i manifestanti ieri anche ex ministri del governo di transizione del Sudan arrestati durante il golpe e successivamente rilasciati dai militari. Uno di questi, Khalid Omar Youssef, divenuto una figura di spicco dell’opposizione, ha parlato a una folla di migliaia di persone prima di essere interrotto dal lancio dei lacrimogeni. Youssef ha poi twittato che «Che ci sparino pure addosso gas lacrimogeni o proiettili, non ci metteranno a tacere…sconfiggeremo il golpe e il nostro popolo riacquisterà la libertà».

Fino a ieri sera non si avevano notizie di morti e feriti gravi – i militari nelle scorse settimane hanno ucciso dozzine di manifestanti – ma le informazioni giunte dal paese africano sono parziali poiché le autorità continuano a bloccare Internet. I manifestanti hanno scandito slogan in particolare contro Hamdok visto ora come un «traditore» della rivoluzione del 2019 per aver accettato un compromesso con il golpista Al Burhan. Da parte sua Hamdok spiega di aver fatto quella scelta proprio per rilanciare la transizione democratica. Ma la sua posizione è debole. Di fatto il premier è nelle mani dei militari.

La formazione del nuovo governo Hamdok tarda ad arrivare. Si attende la nuova Dichiarazione politica che dovrebbe definire il quadro del partenariato civile-militare, ponendo l’accento sulla supervisione della transizione da parte dei comandi militari. Un punto contestato dalle Forces for Freedom and Change che parlano di un tentativo per mascherare il colpo di stato e il potere che resterà nelle mani dei militari. Mentre non c’è ancora una intesa sulla Carta nazionale che dovrebbe dar vita al Consiglio legislativo, il parlamento di transizione di cui si attende la nomina da quando è stato deposto Omar al Bashir. Restano avvolte nella nebbia anche le intenzioni dei gruppi armati e politici della regione del Darfur sostenitori del colpo di stato.

Proprio il Darfur è tornato in primo piano per l’allargarsi delle violenze tra tribù arabe e africane per il controllo di terre, risorse e pascoli. Da ottobre, 248 persone sono rimaste uccise in questi scontri, secondo i calcoli del Comitato dei medici del Sudan. L’Onu aggiunge che 83.000 sudanesi sono fuggiti dal Darfur dove l’esercito afferma di voler inviare 3.000 soldati.