«Cambridge rompa il silenzio». Ad un anno e due mesi dal ritrovamento del cadavere di Giulio Regeni in un fosso tra Il Cairo e Alessandria, i genitori del giovane ricercatore, Claudio Regeni e Paola Deffendi, hanno inviato un nuovo appello.

Dopo quello della scorsa settimana lanciato dal Senato («L’Italia non rimandi l’ambasciatore in Egitto»), sabato dal Festival internazionale del Giornalismo di Perugia si sono rivolti all’ateneo britannico.

Ad oggi da Cambridge, nonostante la rogatoria della Procura di Roma, datata 6 giugno, è arrivato ben poco: l’attestazione del rischio (firmata da Giulio e dalla sua tutor, Maha Abdelrahman, oppositrice egiziana e profonda conoscitrice delle pratiche repressive del regime del Cairo) nel quale si dichiarava che non esistevano pericoli nello svolgere una ricerca sui sindacati indipendenti in Egitto. Oltre a ciò Cambridge ha mandato dieci faldoni contenenti le mail scambiate da Regeni con l’ateneo, ma nulla sulla ricerca in sé.

Un buco importante, lasciato a margine, ma che va essere coperto per poter avere in mano ulteriori elementi per giungere alla verità. Che, come ripetuto dalla famiglia e dalle organizzazioni per i diritti umani, si trova al Cairo.

Ma una collaborazione fattiva dall’ateneo è più che mai necessaria per inquadrare le attività di Giulio e i contatti presi in Egitto, nel mare magnum delle reticenze e i depistaggi messi in campo dal regime egiziano. Il silenzio di Cambridge e quello della tutor Abdelrahman resta come una macchia, da alcuni spiegata con la volontà di evitare problemi legali.

Da Perugia la famiglia Regeni ha poi allargato il suo appello al resto d’Europa, colpevole di un reiterato silenzio, assordante: «Manca un po’ di partecipazione da parte degli altri Stati europei. Abbiamo cercato di coinvolgerli ma finora non sembra di vedere qualcosa che vada al di là dell’interesse della singola nazione». Molto più forti sono altri interessi, da quelli energetici e commerciali fino alla lotta al terrorismo islamista.