La prima manifestazione per chiedere la riapparizione in vita dei desaparecidos in Messico fu il 28 agosto del 1978. Quarant’anni fa la speranza di cancellare dalla storia la sparizione forzata era forte, oggi davanti agli oltre 32mila scomparsi, quasi tutti negli ultimi 12 anni, vittime della violenza di Stato mascherata da guerra ai narcos, è poco più di un’illusione.

Tra i tanti casi il più emblematico è certamente quello dei 43 studenti della scuola normale rurale Isodoro Burgos di Ayotzinapa.

Il 26 settembre saranno passati quattro anni e tuttora manca la verità su ciò che accadde a Iguala, quando la polizia locale, con la copertura di esercito e polizia federale, attaccò cinque pullman carichi di studenti uccidendo sei persone e facendone sparire 43.

Il presidente uscente Enrique Peña Nieto, mercoledì con una serie di video su Twitter, ha voluto nuovamente «difendere» la verità storica definita dalla procura generale della Repubblica (negata da tutte le inchieste indipendenti) secondo cui gli studenti furono uccisi e bruciati nella discarica di Cocula da narcotrafficanti locali, dopo essere stati loro consegnati da agenti di polizia, appartenenti però al gruppo criminale.

Il video è stato intitolato «Ayotzinapa, un fatto sfortunato per il Messico», un titolo con cui Peña Nieto prova a smarcare se stesso, il governo e lo Stato da ogni responsabilità scaricandole sul crimine organizzato. Altro tassello che mostra sempre più evidentemente come la violenza sia una forma di governo, di cui lo Stato è partecipe. Tanto che Amnesty International ha prontamente commentato il video accusando il presidente di voler occultare la verità.

L’uscita di Peña Nieto arriva dopo che i magistrati del primo tribunale collegiale del Tamaulipas  hanno ordinato la creazione di una Commissione di investigazione per la verità e la giustizia, avendo riscontrato «indizi sufficienti per presupporre che le confessioni e le imputazioni contro chi è stato considerato colpevole furono ottenute tramite tortura».

E arriva dopo la presentazione alla Suprema Corte di Giustizia di 220 ricorsi contro la decisione del tribunale del Tamaulipas (tra questi quello della presidenza della Repubblica, della procura generale della Repubblica, della difesa nazionale, della polizia federale e della Camera dei Deputati.

Emiliano Navarrete, padre di Jose Angel (uno dei 43) dice: «Siamo stanchi di parole accomodanti. Vogliamo fatti e che i funzionari facciano il loro lavoro. Alla Corte chiediamo che difenda la sentenza che chiede la creazione della Commissione di Investigazione, che per noi è l’ultima speranza per sapere cos’è successo ai nostri figlio».

E attribuisce alle parole di Peña Nieto la paura di essere inserito nell’elenco degli indagati. Il Centro dei Diritti Umani Miguel Agustín Pro Juárez, che segue dal primo giorno i genitori dei 43, commenta così: «Il governo federale continua a insistere sulla “falsità storica” e vuole bloccare la Commissione. Il 3 settembre ci sarà la visita della Commissione Interamericana per i Diritti Umani (Cidh) alla Normale Rurale di Ayotzinapa».

In giugno proprio Cidh aveva definito la «verità storica» difesa dallo Stato messicano come «insostenibile». Il caso Ayotzinapa ora cade sul presidente entrante: se Andres Manuel Lopez Obrador vorrà chiudere la stagione della violenza di Stato dovrà mettersi al servizio della verità sulla notte di Iguala e raccontare al mondo cosa accadde e perché.