Dopo Stati uniti e Armenia, la Serbia è il terzo paese al mondo per numero di armi da fuoco a uso civile, recitava nel 2018 la ricerca svizzera Small Arms Survey: 39,1 armi ogni 100 abitanti. Eppure, a differenza degli Usa, le sparatorie di massa non sono così frequenti, anzi sono piuttosto rare: risale al 2013 l’ultimo episodio, nel villaggio di Velika Ivanca un veterano di guerra uccise i familiari e poi entrò nelle case dei vicini, 14 morti.

Ieri a Belgrado, alle 8 di mattina, ad aprire il fuoco dentro una scuola, la primaria «Vladislav Ribnikar», è stato un ragazzino di tredici anni. Ha ucciso sette bambine, un bambino e il custode dell’istituto che ha tentato di fermarlo e ne ha ferite sette (sei minori e un’insegnante, di cui due in pericolo di vita).

«Aveva pianificato tutto da mesi – ha poi spiegato il capo del dipartimento di polizia di Belgrado, Veselin Milic – Aveva un elenco delle persone da eliminare e aveva fissato degli obiettivi prioritari».

Quale sia il movente, il motivo di una simile strage, non è ancora dato da sapere, dalle voci raccolte dai giornalisti locali il tredicenne viene descritto come un ragazzino tranquillo e dai comportamenti «ottimi». Oltre a quattro molotov nello zaino, aveva due pistole prese nell’appartamento del padre, che ieri pomeriggio è stato arrestato con la moglie: le armi, fa sapere il ministro dell’Interno Bratislav Gasic, erano legalmente detenute e custodite in cassaforte ma verranno prese comunque delle misure legali perché quella cassaforte il figlio è riuscito ad aprirla.

Potrebbe essere accusato di «gravi reati contro la sicurezza generale», scrive l’Alta Procura di Belgrado. Che in una nota sul proprio sito specifica: il 13enne «non è perseguibile penalmente perché non ha compiuto i 14 anni». È stato trasferito in un ospedale neuropsichiatrico, ha detto ieri sera il presidente serbo Vucic.