Nella sua recente biografia letteraria dedicata a Stephen Crane, Paul Auster nota, a proposito del romanzo breve George’s Mother, come l’incipit sia «uno dei più sconcertanti di tutta la letteratura americana»: «Sotto la pioggia turbinosa che arrivò al crepuscolo lo stradone brillava di una sfumatura bluastra che incontra ampia disapprovazione quando viene usata in pittura». Prima che il lettore possa prendere fiato e tuffarsi nella storia, la storia e il modo in cui viene narrata vengono messi in discussione».

Di quale bluastro sta parlando Crane, e perché il suo uso in un quadro è biasimato? Forse, perché è considerato innaturale e dunque non veritiero. Ma il narratore onnisciente dice di avere visto quel colore sgradito ai critici d’arte, e pertanto deve testimoniarne l’esistenza.

In sintesi, secondo Auster, Crane sta dicendo al lettore: «ecco il mio piccolo libro, che vi piaccia o no». Con questo straniante attacco, Crane ribadisce l’indipendenza del suo modo di rappresentare le cose, in sintonia con la convinzione che, per citare quanto scrisse in una lettera a John Northern Hilliard, «Un uomo viene al mondo con un paio di occhi, e non è responsabile per ciò che vede – è soltanto responsabile per la qualità della sua onestà personale».

Pubblicato per la prima volta nel 1896 e ora disponibile in italiano nella tersa traduzione di Luca Briasco per la collana degli «Introvabili» di minimum fax, La madre di George, pp. 100, € 12,00) rappresenta per Crane un ritorno al tema degli slum newyorchesi, i bassifondi della metropoli americana già esplorati in alcuni articoli giornalistici ma, soprattutto, nel romanzo d’esordio del 1893 (pubblicato sotto lo pseudonimo di Johnston Smith), Maggie, ragazza di strada.

È però solo dopo il clamoroso successo del Segno rosso del coraggio, uscito nel 1895, che Crane può permettersi tanto di ripubblicare Maggie – sia pure in un’edizione espurgata delle profanità della versione originaria – quanto di aggiungere a quella storia una sorta di secondo atto, in cui, pur essendo la scena dominata dal figlio George, il titolo mette in primo piano una nuova figura femminile, quella materna. Anche il titolo precedentemente scelto da Crane, e poi accantonato, si distingueva per la stessa scelta prospettica: A Woman without weapons, una donna disarmata.

Nel testo, la sensazione di essere privi delle armi giuste per lottare in quel mondo che pochi anni prima, con un misto di orrore e compassione, era stato raccontato e fotografato da Jacob Riis in How the Other Half Lives (del 1890), sembra accomunare in un modo o nell’altro tutti i suoi abitanti. Ma in particolare sono madre e figlio a ritrovarsi disarmati. La madre di George, la «donnina anziana» del racconto, ha armi per combattere sul fronte domestico, ma non può ostacolare il declino nell’alcolismo e nell’impotenza dell’unico dei suoi cinque figli ancora in vita: «Nella stanza infuriava una battaglia. Attraverso nubi di polvere o di vapore non era difficile intravedere quella figura minuta che vibrava colpi formidabili. Come se fosse costantemente sotto assedio. Teneva la scopa puntata a mo’ di lancia contro i demoni della polvere, e un clangore costante accompagnava la sua lotta contro quei nemici infaticabili. Era l’immagine vivente del coraggio più indomito».

Il coraggio che le permette di affrontare «i demoni della polvere» si rivelerà insufficiente di fronte ai fantasmi che si agitano nella mente di un figlio, anche lui drammaticamente disarmato nella battaglia della vita.

Quasi tutto quel che accade nel racconto è visto attraverso gli occhi di George Kelcey, ma l’ironia che pervade ogni singola pagina solleva dubbi sulla «onestà personale» della sua visione del mondo. Come già Maggie, anche George è un proletario incapace di percepire la dimensione reale della sua esistenza, e se la prima confonde con un fiabesco cavaliere lo squallido profittatore che la porterà alla rovina, le fantasie che popolano la mente del secondo sono altrettanto alienanti. Nella sua mente si agita costantemente il fantasma di «un uomo più grande, più bello, più spaventoso.

Quell’uomo era ciò che George sarebbe voluto diventare». E se George resiste ai tentativi della madre di educarlo e, soprattutto, di trascinarlo in chiesa a pregare, è però d’accordo con lei sul fatto che «avrebbe saputo superare ogni ostacolo, come una pietra scagliata a gran velocità. Sarebbe diventato un uomo di potere, e si sarebbe dilettato a riversare la propria generosità e la propria rabbia sui suoi sottoposti».

È questa lucida anatomia dell’immaginazione proiettata sugli abitanti dei bassifondi a distinguere Crane dalla copiosa letteratura para-sociologica o sentimentale dell’epoca, perché egli non si limita a irridere le apocalittiche speranze di riscatto che «la donnina anziana» ripone nella religione, esponendo al ridicolo anche la «fede» secolare dello stesso George: «Ogni tanto gli capitava di domandarsi in che modo il destino avrebbe cominciato a trasformarlo in una figura grandiosa, ma sugli esiti del processo non aveva il minimo dubbio. Un cocchio di nuvole rosa era pronto ad accoglierlo. La fede era la sua unica ragione di esistenza».

Crane dichiarò che con Maggie aveva voluto mostrare come «l’ambiente fosse una cosa possente … e di frequente desse forma alla vita delle persone». Resta però difficile pensarlo come a un naturalista tout court, perché la sua prosa si focalizza più che sulla pressione delle circostanze, sulle errate letture che i personaggi offrono dell’universo in cui sono condannati a vivere. George’s Mother, con il declino del protagonista nell’alcolismo e nella disoccupazione, anche a causa delle «cattive compagnie» di beoni o veri e propri delinquenti, racconta una vicenda indistinguibile da quelle di tanta letteratura popolare dell’epoca sulle nefandezze e i tragici destini delle «classi pericolose» annidate nei quartieri fatiscenti delle grandi città.

A fare la differenza è lo stile di Crane, l’ironia tagliente con cui denuncia l’immaginazione malata dell’umanità a lui contemporanea. La metropoli è un testo che resta indecifrabile nella sua reale complessità: «Era un mistero impenetrabile, quella città, un miscuglio infinito di diversi colori. Aspirava a comprenderla in ogni sua sfumatura, a coglierne le meraviglie e la vita in costante movimento, colma di peccati. Sognava un livello di consapevolezza che appartiene solo agli uomini più saggi. Pensava a Jones. Non poteva fare a meno di ammirare un uomo che conosceva tutti quei baristi».

Sullo spessore ideologico della strategia retorica di Crane è lecito interrogarsi: perché la stessa ironia che espone al ridicolo le fantasie della cultura popolare e rende umani, fragili e credibili gli abitanti di un mondo attraversato da violenza e ipocrisia, ne conferma la distanza dall’«altra metà» che li osserva e li giudica. Tra un sofisticato narratore onnisciente, che non arretra davanti alle tonalità di ciò che vede, e i suoi personaggi tragicamente inadeguati, il confine pare insuperabile.