Si inchina di fronte ai 27 milioni di morti provocati dalla «barbarie nazista» indelebile nella coscienza collettiva tedesca. Ricorda il coraggio dei soldati dell’Armata Rossa – dai russi agli ucraini, dai bielorussi ai georgiani, fino ai kazachi – pronti a dare la vita per sconfiggere «il peggior regime che abbia mai devastato il pianeta».

E SOPRATTUTTO PARLA, per la prima volta, dietro al leggio dell’ex quartier generale sovietico a Berlino-Karlshorst, esattamente l’edificio in cui la Germania firmò la capitolazione l’8 maggio 1945. Non era mai successo a un capo di Stato tedesco.
Ottant’anni dopo l’inizio dell’Operazione Barbarossa, il presidente della Repubblica, Frank-Walter Steinmeier, rende i massimi onori istituzionali «agli uomini e alle donne» massacrati durante l’invasione nazista dell’Unione Sovietica e poi per liberare la Germania dal regime di Hitler, «in nome della riconciliazione russo-tedesca e per un futuro comune migliore del passato».

Con uno storico discorso durato 38 minuti e mezzo che non ha fatto sconti a nessuno dentro e fuori la Germania. A partire dall’ambasciatore ucraino a Berlino, Andrij Melnyk, che ha rifiutato il suo invito alla mostra Dimensioni di un crimine – Prigionieri di guerra sovietici nella Seconda guerra mondiale perché «la scelta di Karlshorst dimostra la totale mancanza di considerazione della Germania per i Paesi dell’Urss che subirono l’occupazione russa».

La risposta di Steinmenier, a margine della commemorazione, è stata immediata e senza i consueti giri di parole diplomatiche che pure il presidente ben mastica fin dai tempi in cui era ministro degli Esteri. «L’unico obiettivo della nostra mostra è creare un effetto che superi tutte le differenze e i conflitti. La reazione dell’ambasciatore di Kiev va contro l’interesse di collaborazione tra la Germania e l’Ucraina. Non si strumentalizzi la Storia contro i propri vicini».

UN AUTENTICO, SONORO, clamoroso schiaffo politico. L’unico al termine di un discorso incardinato esclusivamente su inconfutabili testimonianze storiche, peraltro citate una per una. Cominciando dalla lettera che il generale von Moltke, in servizio all’Alto comando della Wehrmacht, spedì alla moglie nell’agosto 1941. «Le notizie dall’Est sono terribili. Sulle nostre spalle pesa un’ecatombe di cadaveri. Arrivano notizie di trasporti di prigionieri ed ebrei di cui solo il venti per cento arriva a destinazione, mentre si dice che nei campi di reclusione la facciano da padroni la fame e il tifo – scandisce il presidente federale – La guerra di cui parlava von Moltke era al di là di ogni dimensione umana. Eppure quelli che la concepirono erano uomini. Erano tedeschi».

IL RESTO DEL TEMPO Steinmeier lo dedica interamente ai prigionieri di guerra sovietici scientificamente sterminati dai soldati nazisti. Un capitolo pressoché inedito nella storia delle commemorazioni ufficiali e quasi dimenticato anche nei manuali scolastici. «Non erano considerati come prigionieri di guerra. Sono stati disumanizzati. L’esercito tedesco non aveva alcuna intenzione di nutrirli e i suoi generali non hanno mai contraddetto la volontà di Hitler di trasformarli negli esecutori del crimine» ricorda il presidente. Ancora una volta con i documenti originali tra le mani: «I prigionieri di guerra che non lavorano devono morire di fame. Questo è l’ordine firmato dal comandante generale delle forze armate tedesche nel novembre 1941».

ECCO DUNQUE LA STORIA, che non è un’arma politica. Anche se Putin sostiene che «il gasdotto Nordstream è il migliore segno della rinnovata amicizia tra Berlino e Mosca» e il governo ucraino, per lo stesso motivo, pretende le armi made in Germany (che il Bundestag ha negato) per fare la guerra alle repubbliche separatiste.

Storia da leggere e prima ancora da osservare con gli occhi bene aperti. A riguardo Steinmeier indica una fotografia della mostra di Karlshorst, «un’immagine apparentemente innocua con centinaia di alberi alti fino al cielo. Guardandola bene, però, si nota che gli alberi sono senza foglie, rami e corteccia. I prigionieri sovietici li hanno raschiati dai tronchi a mani nude per non morire morire di fame. Succedeva in Vestfalia, a un’ora di viaggio dalla mia città natale, dove sono cresciuto senza imparare nulla a scuola di ciò che era accaduto solo due decenni prima».