«I mujahedin dello Stato islamico hanno attaccato la base militare di Inates, l’hanno occupata per diverse ore e hanno giustiziato oltre 100 militari». Questa la rivendicazione, riportata dal sito di monitoraggio della galassia jihadista Site, da parte del gruppo Iswap (Stato islamico nella provincia dell’Africa occidentale) alla base militare di Inates, lungo il confine con il Mali, che ha causato la morte di 71 militari nigerini.

L’attacco è avvenuto lo scorso martedì, ma solo giovedì il governo di Niamey ha ufficializzato la notizia, dichiarando il lutto nazionale per tre giorni. L’onda d’urto nel paese è terribile. Il presidente nigerino Mahamadou Issoufou è rientrato nel paese d’urgenza convocando un consiglio di sicurezza nazionale. Una situazione di crisi permanente e di estrema gravità, a tal punto da far convocare per domenica, in coincidenza con i funerali di stato dei militari, un vertice d’urgenza tra i presidenti dei paesi del G5 Sahel (Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad e Mauritania) con l’obiettivo di «trovare nuove sinergie per contrastare il fenomeno jihadista sempre più virale in tutta l’area».

L’attacco alla base di Inates, il più sanguinoso dall’inizio dell’offensiva jihadista nel 2015, evidenzia chiaramente le difficoltà delle forze armate del G5 Sahel, con truppe mal equipaggiate di fronte agli assalti sempre più audaci di gruppi islamisti armati, nonostante la presenza di 4.500 soldati francesi impegnati nell’operazione anti-terrorismo Barkhane, in tutto il Sahel. Ne sono un esempio gli oltre 140 militari uccisi negli ultimi mesi nel vicino Mali, dove a fine novembre sono caduti 13 militari francesi, ufficialmente «in uno scontro accidentale tra due elicotteri», ma, secondo la stampa maliana, vittime «dei missili terra-aria dei miliziani».
L’attacco di martedì in Niger è stato condotto da «diverse centinaia di combattenti, pesantemente armati, organizzati tatticamente e ben equipaggiati» secondo il Ministero della Difesa nigerino.

Il presidente francese Emmanuel Macron ha condannato l’attacco e ha rinviato a gennaio l’incontro previsto ieri (16 dicembre) in Francia con i presidenti dei paesi del G5 Sahel. Un incontro, già programmato da tempo per chiarire con i leader dei cinque paesi le posizioni di ciascuno sulla presenza militare francese nel Sahel, sempre più contestata dall’opinione pubblica.

Ancora ieri a Niamey, come avvenuto in Mali e in Burkina Faso, la gente protestava chiedendo: «Dove sono gli aerei da combattimento e i droni? (…) le forze straniere (francesi e statunitensi, ndr) non sono qui per noi, quindi se ne devono andare».

Da parte loro, in maniera congiunta e per voce del presidente maliano, Ibrahim Boubakar Keita, i cinque presidenti in questione hanno dichiarato: «La situazione è critica e pensiamo che la forza congiunta del G5 Sahel non abbia ottenuto ciò a cui mirava e ciò che è stato promesso dalla comunità internazionale per contrastare la minaccia jihadista».

Dopo la nomina del successore di Abubakr al-Baghdadi con Abu Ibrahim al-Hashimi al-Quraishi, circolano voci di un riavvicinamento tra le “sussidiarie” saheliane di Daesh e al-Qaeda, ovvero lo Stato islamico nel Grande Sahara (Eigs), guidato da Abu Walid Al-Sahrawi, e il Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Gsim) comandato da Iyad Al-Ghali, insieme a formazioni come l’Iswap – filiale dello Stato Islamico in Nigeria, con a capo Abu Musab Al Barnawi, nato da una scissione all’interno di Boko Haram – o al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi).