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Sri Lanka, è caccia al musulmano. L’isola sotto coprifuoco

Sri Lanka, è caccia al musulmano. L’isola sotto coprifuocoColombo, militare a guardia della moschea della capitale srilankese – Afp

Sri Lanka Dopo gli attentati di Pasqua che uccisero 250 cristiani, scatenati i gruppi identitari buddisti e i razzisti, anche contro i profughi. Appello congiunto del cardinale Malcolm Ranjith e del venerabile monaco Ittapane Dhammalankara: «Fermiamo la mano politica invisibile che sta dietro le violenze»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 15 maggio 2019

Kiniyama, Chilaw, Kuliyapitiya, Hettipola, Minuwangoda. Sono i nomi delle cittadine srilankesi che lunedi hanno visto un’ondata di violenze anti musulmane senza precedenti che ha costretto ieri il governo a imporre nuovamente il coprifuoco. Lunedi la misura escludeva altre aree del Paese ma da ieri sera coinvolge tutta l’isola e non solo il Nord Ovest, la provincia centro occidentale a Nord di Colombo al centro dei pogrom anti islamici di inizio settimana.

Questa volta non si è trattato di una fiammata estemporanea o di qualche reazione emotiva troppo violenta come in altri episodi recenti quando un banale incidente – come accaduto una settimana fa a Negombo – aveva dato la stura a una sorta di caccia al musulmano. Il coprifuoco ha orari diversi nelle varie province. Nel Nord Ovest è il più lungo: dalle sei di sera alle sei del mattino, in sostanza dal calar del sole all’alba.

La violenza scatta lunedì un po’ in tutta la provincia e a Kurunegala – specifica un quotidiano locale – un uomo di 42 anni resta vittima di uno dei tanti pogrom. Lo portano in ospedale ma Mohammed Ameer Mohammed Sally non ce la fa. Aveva ferite d’arma da fuoco. Il resto si fa con bastoni, coltelli e taniche di benzina.

Fuoco alle moschee, ai testi sacri, ai negozi dei musulmani. La lista è lunga: a Kiniyama, centinaia di persone prendono d’assalto una moschea, distruggendo porte e finestre e dando alle fiamme il Corano. A Chilaw, negozi e moschee di proprietà musulmana vengono attaccati dopo una disputa via Facebook. Incidenti a Hettipola.

L’incendio di un pastifico a Minuwangoda senza che, dice il proprietario, la polizia intervenga. Ce n’è anche per i rifugiati: Sadaf, un dodicenne afghano, deve cercare rifugio dalla polizia, racconta Deutsche Welle. Gli era già successo dopo la Pasqua di sangue quando attentatori suicidi hanno ucciso oltre 250 cattolici. Lui e altri 150 ospiti di un campo profughi avevano cercato riparo in un commissariato.

Gli arresti sono oltre una settantina e i social vengono di nuovo bloccati. Tra gli ammanettati ci sono leader di organizzazioni come Namal Kumara dell’Anti-Corruption Force Operations o Amith Weerasinghe di Mahasohon Balakaya, un gruppo suprematista già visto in azione nel marzo scorso quando – alleato a gruppi di buddisti estremisti del Bodu Bala Sena – organizzava un pogrom anti musulmano a Kandy, Sri Lanka centrale. In manette anche Suresh Priyasad a capo di Nawa Sinhala, altro gruppo estremista singalese.

La Chiesa cattolica locale cerca di gettare acqua sul fuoco anche perché in alcune cittadine, Chilaw ad esempio, la maggioranza dei residenti è cattolica. Lo fa con una conferenza stampa congiunta dove accanto all’arcivescovo di Colombo, cardinal Malcolm Ranjith, siede anche il venerabile Ittapane Dhammalankara, uno dei leader religiosi anziani col titolo di Mahanayaka thera, monaci che hanno il compito di regolare il clero buddista nella tradizione Theravada dello Sri Lanka.

C’è una «mano invisibile con motivazioni politiche dietro alle violenze», dice il venerabile che aggiunge: «Le persone hanno agito con moderazione dopo le esplosioni delle bombe nella domenica di Pasqua. Sono rimasti calmi per circa due settimane dopo l’incidente del 21 aprile. L’improvvisa eruzione della violenza – conclude – rende chiaro che c’è una mano invisibile che inganna la gente».

Il cardinale ha puntato l’indice sui quei leader politici che hanno fomentato le violenze e distribuito liquori per surriscaldare gli animi. Entrambi hanno accusato gli apparati di sicurezza di non aver dato loro retta quando avevano chiesto una maggior attenzione preventiva nelle aree a rischio.

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