Ciò che sta accadendo agli spread e alle borse in questi giorni dimostra quanto la stabilità finanziaria dell’eurozona sia ancora sprovvista di armi per difendersi da shock esterni che colpiscono in modo asimmetrico le economie. La guerra in Ucraina sta fortemente rallentando la crescita e ne risentono maggiormente i Paesi ad alto debito come l’Italia. Già questo contribuisce ad allargare lo spread dei titoli pubblici. Difficile porvi rimedio con manovre fiscali. L’austerità, come abbiamo imparato dopo la crisi dell’euro dello scorso decennio, può perfino peggiorare le cose. Un sostegno del Pil da maggiore deficit pubblico nei paesi più indebitati, proprio mentre i loro spread aumentano, non incontrerebbe certo il favore dei mercati, pur in regime di sospensione del Patto di Stabilità.

Se al quadro si aggiunge una montante inflazione entra in gioco la politica monetaria. Fino a quando la Bce è stata fin troppo tollerante ha favorito, con la crescita dell’inflazione, la riduzione dei debiti. Tuttavia quando, la settimana scorsa, ha finalmente deciso di non esserlo più si è trovata di fronte a un grosso ostacolo. Il ritorno alla stabilità dei prezzi, cioè il rispetto del suo mandato, urta contro una dilatazione degli spread foriera di una instabilità finanziaria rischiosa per l’integrità della stessa moneta unica.

LA BCE SI È COSÌ TROVATA a dover ricorrere precipitosamente a un’inusuale vertice di emergenza in cui ha affermato la sua volontà di mettere a punto strumenti per contrastare spread vincolanti la sua libertà di azione. Una volontà che si è rivelata rassicurante per i mercati solo per breve momento e suscitato un intervento critico del Ministro delle Finanze tedesco.
Molto può essere imputato a un errore di strategia della Bce, in questo simile a quello commesso dalla Fed, peraltro più lieve grazie al suo differente statuto che contempla come obiettivo non solo la stabilità dei prezzi ma anche l’occupazione.

Si è però dimenticato, in ambo i casi, che la politica monetaria va diretta soprattutto a domare le aspettative di inflazione fin dal loro insorgere, lasciando all’altro strumento della politica fiscale il compito di sostenere l’economia se necessario. Rimane il fatto che nell’eurozona, a differenza dell’economia americana, ci troviamo ad affrontare l’attuale difficile congiuntura in una situazione di impasse in cui sembrano impotenti sia la politica monetaria sia la fiscale. La prima non riesce ad essere efficace per combattere l’inflazione senza trovare il modo di governare gli spread. La seconda, affidata al governo dei Paesi, incontra difficoltà nel sostenere l’economia proprio nei paesi più bisognosi.

CI TROVEREMMO in condizioni assai migliori se nella Ue fossero già stati risolti due problemi ormai da troppo tempo sul tavolo. Il primo riguarda la creazione di un’opportunità di investimento non rischioso nell’eurozona che prenda il posto dei titoli di stato tedeschi. Tutti gli spread sono parametrati ai bund, ritenuti privi di rischio, ma scarsi rispetto al compito loro affidato. Se ne avvantaggia l’economia tedesca a spese del resto delle economie dell’eurozona. Queste ultime infatti si troverebbero con spread minori se parametrati a obbligazioni emesse dal loro insieme.

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E la stessa politica monetaria restrittiva della Bce non verrebbe più a trovarsi nell’attuale imbarazzante situazione in cui la sua esigenza di contenere gli spread dovrebbe portarla a vendere titoli di stato tedeschi e acquistare titoli di Paesi più indebitati. Con il curioso risvolto di un manifesto, inusuale, dissenso tra il membro tedesco dell’esecutivo Bce Isabel Schnabel e il suo Ministro delle Finanze.

IL SECONDO PROBLEMA riguarda la revisione del patto di stabilità. Se venisse introdotta la golden rule – già vigente in Germania prima della norma costituzionale “frena-debito” del 2009 – che esclude dal computo del deficit pubblico le spese per investimento, la politica fiscale potrebbe esercitare senza difficoltà il ruolo anticiclico che le spetta. Certo, la distinzione tra spesa per investimenti e spesa corrente può essere discutibile. Ma, come di recente ha sostenuto il Commissario Paolo Gentiloni, può venire in soccorso il “metodo Pnrr (Piani nazionali di ripresa e resilienza) per concordare con la Commissione Europea le spese in deficit con maggiore moltiplicatore del Pil e perciò in grado di ridurre il peso del debito.