La devastante spinta edilizia favorita e coltivata dall’urbanistica deregolata di fine secolo, quel voluminoso flusso di cemento che ha rovinosamente impattato su città e territori, sta ormai consumando i suoi ultimi cantieri. È il tramonto di una parabola che ha tuttavia alterato e deformato interi paesaggi, lasciando nelle pianure piantagioni di prefabbricati industriali vuoti e abbandonati, quartierini di affettate palazzine dai tristi balconcini ai bordi delle città, malinconici villaggi finto-leziosi sulle coste e nelle valli e perfino sui monti.
Ora non si costruisce più, nel nostro paese. Finalmente. Ma non grazie a quell’auspicato rinsavimento invocato per decenni dalla cultura del limite, dalla critica al produttivismo, dalle tante soggettività indignate per i danni alla natura e le ferite alla bellezza. Quanto, più crudamente, per l’esaurirsi di profitti e rendite nel mercato immobiliare. Uno dei più vistosi effetti, quest’ultimo, della crisi economica in corso. Gli stabilimenti chiudono, le case non si vendono, le attività commerciali languono. Le banche non finanziano più iniziative imprenditoriali e progettazioni espansive, né, ancor meno, assicurano mutui alle famiglie. E sono ormai migliaia e migliaia le concessioni edilizie, un tempo spasmodicamente agognate, che si accumulano nei cassetti degli uffici tecnici comunali.
È l’esito di un processo che fin dal suo esordio conteneva un inganno, oltreché un errore strutturale. Ritenere cioè che, in forza delle sue esclusive dinamiche, il mercato avrebbe riequilibrato il settore edilizio componendo con efficacia sviluppo immobiliare e fabbisogno alloggiativo. Una scelta socialmente rovinosa, che nel corso dell’ultimo ventennio ha finito per sovrabbondare l’offerta ma non per questo soddisfare la domanda. Una domanda che è sensibilmente cresciuta, perché a quella cronicamente inevasa si è aggiunta nell’ultimo scorcio quella degli esodati, affittuari morosi e quindi sfrattati, piccoli proprietari inadempienti a cui le banche pignorano casa, oltre ai tantissimi giovani che restano in famiglia, respinti dai costi eccessivi delle nuove abitazioni. Il panorama immobiliare italiano in questo momento è dunque gravemente scompensato: un paradosso che né favorisce gli affari né soddisfa le necessità. È aumentata la disponibilità e nel contempo si è ampliato il bisogno. Affidarsi alle ritmiche del mercato, a quella logica d’impresa che avrebbe dovuto far felicemente incontrare offerta patrimoniale e domanda sociale, s’è rivelato tanto illusorio quanto tragicamente fallace. E così, oggi, c’è sempre più gente senza casa e sempre più edilizia invenduta.
Non c’è che dire, un vero capolavoro di idiozia economica e ferocia sociale. Reso possibile da norme urbanistiche sempre più permissive e compiacenti, attraverso generose concessioni per valorizzare, ristrutturare, razionalizzare (leggi: sfruttare), facilitazioni nei cambiamenti di destinazione d’uso di suoli e fabbricati, affidamento commerciale di beni demaniali e perfino culturali. E poi con la cartolarizzazione e la privatizzazione del patrimonio abitativo pubblico, insieme alla definitiva rinuncia a realizzare nuova edilizia popolare.

L’intero pacchetto, insomma, delle scelte politiche che hanno accomunato negli ultimi decenni centrosinistra e centrodestra, entrambi penosamente travolti da quei furori liberisti che inevitabilmente hanno generato disagio, esclusione, collera, conflitto.Quei sentimenti che stanno oggi animando una reattività sociale sempre più estesa e combattiva. E che si deposita nelle centinaia di occupazioni che si susseguono nelle nostre città. Effetto inevitabile di una situazione completamente chiusa e bloccata. Con un mercato immobiliare inaccessibile perché totalmente gestito dai privati, società d’impresa o finanziarie che siano, in assenza di alternative di edilizia sociale o comunque calmierata, senza alcuna offerta alloggiativa pubblica perché ormai estinta, cosa volete che facciano tutte quelle persone che si ritrovano in mezzo a una strada, che vivono nelle auto, che s’affollano da amici e parenti, che s’accampano nei parchi o sugli argini dei fiumi, tutto quel popolo nomade per necessità, se non per destino?
Dunque ci si sistema laddove ci sono spazi inutilizzati, nei fabbricati abbandonati o nelle palazzine invendute, nelle fabbriche dismesse o nelle scuole svuotate, in tutta quella volumetria residuale che giace malinconica agli angoli delle città. In natura, così come in politica, il vuoto non esiste: prima o poi viene riempito. E torna a vivere. Sono quasi commoventi le facce speranzose di chi di chi per la prima volta si ritrova con un tetto sulla testa, con un bagno dove lavarsi, con un letto solo suo, con una stanza dove appendere una vecchia fotografia. C’è gente, in questi edifici recuperati, in questi nuovi falansteri, che prima d’ora non aveva abitato da nessuna parte.
Ma le occupazioni non solo soltanto abitative. Si occupa anche per avviare un’attività produttiva, per inventarsi un lavoro, per riconvertire un impianto e rimetterlo in moto, per sviluppare un progetto collettivo, per riattivare un vecchio teatro, un cinema abbandonato, accendere insomma una speranza culturale. E anche in questo caso, avviene per quell’impellente necessità di dare senso a un luogo, a uno spazio, oltreché a se stessi. Quanti ragazzi, quante ragazze nelle nostre città hanno bisogno di lavorare o anche soltanto di esprimersi, di mettere a disposizione la propria passione, la propria creatività? Chi raccoglie queste aspirazioni, quando, al contrario, si fa di tutto per comprimerle e marginalizzarle?
Allora succede che ci si organizza e ci si riappropria di ciò di cui si ha diritto. E sapete come va a finire? Be’, c’è da restarci davvero sorpresi. Perché in queste occupazioni di nuovo conio si sviluppano attività “utili”, soprattutto alla città e ai cittadini: si avviano progetti, si realizzano servizi, si organizzano mercati, si allestiscono spettacoli, ci si diverte, si sta bene, arriva gente, si chiacchiera, si sta insieme. Si fanno tutte quelle cose che andrebbero fatte ma che nessuno più fa. Quelle cose insomma che rispondono ai bisogni di quartieri e territori: case-famiglia, palestre, centri anti-violenza, biblioteche, spazi espositivi, sportelli d’ascolto, laboratori culturali, sale-prova, osterie sociali,attività per l’infanzia. Soddisfano esigenze diffuse e in più che creano quella preziosa qualità immateriale, fatta di socialità, relazioni umane, solidarietà, allegria e piacere. Non ci si crederà, ma producono anche economie e redditi: di sussistenza, certo, ma quel tanto o poco che comunque consente di gestire al meglio l’occupazione. Se è proprio necessario definirlo, questo modello si chiama autogoverno. E l’impressione è che si tratta di un processo destinato a estendersi. È una risposta sociale e culturale alla crisi dell’economia e all’opacità della politica.