La guerra di Putin entra nella quarta settimana con le macerie di un’ala del teatro di Mariupol in primo piano, anche se meno visibili di quanto ci si aspettava. «Le informazioni sulle vittime sono ancora in fase di chiarimento» dicevano ieri le le autorità cittadine, spiegando come «malgrado i continui bombardamenti» le squadre di soccorso stessero scavando «il più possibile per salvare le persone».

130, SECONDO IL PRIMO E ULTIMO ultimo dato diffuso ieri. Nel teatro trasformato in rifugio centinaia, forse oltre mille persone secondo le stime più diffuse. In serata l’ex governatore della regione del Donetsk, Serhiy Taruta, sosteneva alla tv ucraina che in realtà «tutti i servizi della città che dovrebbero soccorrere, curare o seppellire le persone non esistono più». Altre testimonianze descrivono scene apocalittiche nel resto della città, con centinaia di corpi nelle strade, mentre le immagini satellitari mostrano le grandi scritte in russo, «bambini», ai lati dell’edificio colpito. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky protesta con il «cuore spezzato». La portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova parla di «bugie».

IN ASSENZA DI NOTIZIE CERTE su questo, a imporsi sono quelle giunte dalla cittadina di Merefa, presso Kharkiv, dove le bombe russe su una scuola, un centro culturale e un’istituzione scientifica non meglio precisata secondo le autorità locali hanno provocato 21 morti e 25 feriti. L’artiglieria russa sui caseggiati di Novi Petrivtsi, nella regione di Kiev avrebbe poi ucciso un bambino di 2 anni. E la Casa bianca conferma la notizia di un cittadino Usa ucciso a Chernihiv.

Putin, riferisce la Tass citando fonti del Cremlino, non ha in programma visite al fronte né ai soldati feriti. Il presidente Zelensky invece prosegue il suo tour virtuale di parlamenti occidentali. Dopo il Congresso Usa e la Germania, domenica parlerà alla Knesset e martedì sarà a Montecitorio, accolto da Draghi unico iscritto a parlare oltre a lui. Il premier italiano ieri ha preventivamente spiegato il “no” dell’Italia alla no fly zone che presumibilmente Zelensky invocherà, per le ragioni note di non voler scatenare un conflitto totale. Ma certo «Putin vuole la guerra», ha detto.

In Italia, più che in Francia, hanno fatto rumore le parole pronunciate dal presidente Macron a un incontro elettorale, sul bisogno di potenziare l’esercito per essere pronti a «una guerra di alta intensità che può tornare sul nostro continente». E si è fatta notare l’intervista rilasciata in Polonia dal capo negoziatore ucraino Mykhailo Podolyak, in cui un accordo torna a essere «possibile» in massimo una decina di giorni, per chiudere almeno la «fase acuta» del conflitto.

CON I LISTINI PIÙ GUARDINGHI dopo un giorno di euforia, la più attiva sul fronte diplomatico in queste ore è forse la Turchia. Il ministro degli esteri Mevlut Cavusoglu mercoledì era a Mosca e ieri è riapparso a Leopoli. Dopo l’incontro con il suo omologo ucraino Dmytro Kuleba è tornato a definire «possibile» l’incontro diretto Putin-Zelensky. A stretto giro, e al termine di una telefonata con Putin che segue quella da «vero amico» con il presidente ucraino del giorno prima (anniversario del referendum in Crimea contestato da Ankara), lo stesso presidente Erdogan ha proposto la Turchia come palcoscenico, per quando sarà. Fosse per Zelensky anche oggi, per Mosca solo quando dal tavolo de negoziati uscirà un documento sul quale non resterebbe che mettere la firma: ritiro in cambio di smilitarizzazione e neutralità dell’Ucraina, la sostanza resta questa.

MA IL SEGRETARIO DI STATO USA Antony Blinken si è di nuovo detto convinto che Mosca possa «preparare il terreno» a una escalation “chimica” e che l’idea sarebbe poi quella di attribuirla agli ucraini. Sul definire «crimini di guerra» l’operato di Putin in Ucraina Blinken si è detto d’accordo con il presidente Biden, che ieri ha rincarato la dose festeggiando San Patrizio con gli irlandesi. Su Putin – «vero delinquente», «dittatore omicida» – e la guerra in Ucraina oggi ha in agenda un colloquio con il presidente cinese Xi Jinping. È la nuova fase di un dialogo difficile, iniziato nei giorni scorsi a Roma con sei ore di confronto tra i responsabili delle rispettive sicurezze nazionali, Jake Sullivan e Yang Jiechi. Il terreno di possibili convergenze resta accidentato, soprattutto dopo le preoccupazioni manifestate dalle autorità Usa – e rilanciate ancora ieri dal portavoce della Casa bianca Jen Psaki – circa imminenti appoggi economici e militari di Pechino alla Russia.

E dopo le pressioni rinnovate ieri dal capo della Nato Jens Stoltenberg affinché la Cina condanni «con chiarezza» l’invasione, essendo peraltro «obbligata» a farlo dal suo status di membro del Consiglio di sicurezza Onu, non hanno aiutato. La «lezione di diritto internazionale da chi ne abusa espandendo le proprie mire geografiche» è stata respinta al mittente dall’ambasciata cinese a Washington.