Ci stiamo avviando, se non verso la fuoriuscita, verso una mitigazione degli effetti della pandemia. E presto cominceremo a spendere i primi fondi per avviare una nuova fase di sviluppo sostenibile.

Di fronte ad uno scenario così importante ci si dovrebbe attendere un forte fermento culturale ed anche qualche segno della tanto auspicata ristrutturazione dei partiti.

Invece siamo ben lontani dalle scomposizioni e ricomposizioni che servirebbero per avere soggetti politici più omogenei e con identità rinnovate. E poiché la storia non si ferma in attesa che le forze politiche sappiano guidarla, siamo di fronte ad un vero e proprio «grande rischio»: ridimensionamento della funzione della politica, ulteriore allontanamento dai cittadini, consolidamento del ricorso a tecnici per il governo della società.

Un primo rischio è relativo al lavoro.

Mentre progettiamo investimenti e nuovo sviluppo e ragioniamo su nuovi lavori e formazione, scattano licenziamenti che aggravano ulteriormente la situazione. Siamo entrati nella pandemia con alle spalle una lunga stagnazione ed una diffusa precarizzazione. Grazie al Reddito di cittadinanza, gli effetti più pesanti della pandemia sulle persone sono stati attenuati, ma in presenza dei primi piccoli segni di ripresa, riparte la campagna contro il RdC: il lavoro ci sarebbe, ma non si trovano i lavoratori perché preferiscono il reddito garantito.

I primi dati statistici mostrano le tendenze in atto: crescita di contratti a termine e stagnazione di quelli permanenti. Il grande rischio è, quindi, che la fase post pandemica possa generare un enorme effetto sostituzione: fuori semianziani e tutelati, dentro giovani con meno contributi e meno diritti. Meno contratti e più contrattini. Sostenibilità ambientale forse, sostenibilità sociale addio.

Se questi sono i rischi c’è bisogno che entri in campo una nuova cultura che coniughi diritto al lavoro e diritto al reddito correggendo la «spontaneità» del mercato. Ma chi se ne fa portatore in un contesto di frantumazione sociale aggravata dalla pandemia e dagli interventi che hanno favorito alcuni, difeso altri, abbandonato altri ancora?

E qui veniamo ad un secondo grande rischio: è che i corpi politici, invece di creare un nuovo tessuto solidale, si adattino al nuovo spezzatino sociale riproducendolo.

È questo che sembra stia accadendo. Così il Pd si concentra sulla «sua» legge Zan, il M5S sulla «sua» prescrizione, la sinistra sulla «sua» patrimoniale, mentre il sindacato viene spinto su una linea di pura difesa dei «suoi» lavoratori organizzati.

In questo contesto è certo che il ricorso a tecnici divenga la soluzione unica, obbligata e condivisa dalle masse, una vera e propria mutazione genetica con un’altra «sostituzione»: quella della politica con i tecnici. Dalla democrazia alla tecnocrazia. Siamo già a buon punto. Come contrastare questo rischio? A questo punto la politica dovrebbe rinnovarsi profondamente. Ma può farlo procedendo così come sembra stia facendo oggi, per soggetti separati impegnati ciascuno a salvare e difendere la propria identità? O, al contrario, le identità esistenti non dovrebbero incrociarsi, incontrarsi, arricchirsi? Nella realtà italiana questo problema riguarda soprattutto l’area cosiddetta progressista.

Quella più conservatrice e moderata ha una sua articolazione, ma ha anche un comune denominatore che permea soggetti politici e corpo sociale. Qui c’è una cultura sottostante diffusa e radicata che produce senso comune, che attraversa strati sociali, gruppi di interessi, media tradizionali e social e che rimane sostanzialmente maggioritaria nel paese da molti anni.

Sull’altro versante, invece, quel senso comune che si era imposto in alcuni momenti storici alimentando speranze riformatrici è ancora sotto gli effetti della delusione. C’è da fare, quindi, molto, molto di più. C’è da ricomporre la frattura determinata dalla nascita del M5stelle. La necessaria convergenza tra sinistra e corpo elettorale dei 5stelle non può essere rinsecchita dentro una logica di alleanza di necessità e di potere.

Bisogna dedicarsi alla ricerca di una prospettiva di medio lungo periodo che tenga conto delle diverse spinte ideali: dall’ambientalismo, alla moralizzazione, alla solidarietà, al lavoro, alla giustizia civile e sociale. I prossimi appuntamenti potranno scavare altri fossati, ma potrebbero servire anche a ricomporre e generare convergenze non tattiche, riscritture di valori e percorsi.

C’è anche da ricomporre un’altra lacerazione: ci sono movimenti e realtà di lotte che non si incontrano con la politica, per limiti reciproci. Per quanto tempo si potrà procedere per sentieri separati?

Infine. C’è un fatto nuovo: nella politica varata col Pnrr, che ci impegnerà sicuramente per i prossimi anni, la logica degli investimenti finalizzati e condizionati alla realizzazione, implica un nuovo approccio. Non più una politica che predica, ma una politica che può fissare obiettivi, destinare risorse, costruire progetti, monitorarli, controllarli, realizzarli. Una politica, insomma, che può riappropriarsi della sua funzione alta di governo di tutto il processo decisionale. Una politica che potrà generare una nuova classe dirigente che sappia sposare ideali e speranze con azioni e percorsi operativi.

Siamo ancora in mezzo alle macerie della lunga crisi e della pandemia. Ma c’è da ricostruire e costruire. Rimettiamoci tutti in discussione per rimetterci in cammino.