In questi giorni fra gli aggiornamenti che riguardano la cosiddetta fine dello stato di emergenza ci aspettavamo anche quelli che riguardano lo smart working o lavoro agile. Uscire dallo stato di emergenza per questa modalità di lavoro, a cui ci siamo collettivamente abituati dal marzo 2020, significa uscire dal sistema di semplificazioni che ne hanno permesso un’applicazione così estesa e accelerata, non proprio lineare.

A quanto pare bisognerà aspettare fino alla fine di giugno. Le aziende private possono continuare a remotizzare il lavoro secondo quanto sperimentato fin qui, nelle aziende pubbliche gli accordi sono già obbligatori e anche i regolamenti sull’accessibilità, cambia la situazione dei lavoratori fragili.
Ma abbiamo imparato il lavoro smart? e si è veramente realizzata quella rivoluzione che sgancia i lavoratori e le lavoratrici dall’obbligo del cartellino per consentire loro un’autonomia di gestione tutta impostata sul raggiungimento di obiettivi concordati? Sì e no.

Abbiamo imparato che lavorare da remoto si può, e del resto era già possibile, in molti casi non è stato fatto molto di più che attivare una vpn, ma non si è andati molto più in là di un trasferimento a casa della prestazione.
Quello che è stato applicato è un modello di lavoro definito da più parti “ibrido” che mescola telelavoro – con tanto di coerenza di orari di ufficio, reperibilità, incremento di sistemi di controllo – e lavoro agile – presa in carico degli obiettivi e autonomia organizzativa.

Un lavoro da casa ancora in via di definizione, con poco sforzo da parte delle imprese private e pubbliche in termini di digitalizzazione e management, ma su cui, va detto, c’è un interesse generalizzato. Arrivare a una riduzione significativa – ma non definitiva – degli spostamenti quotidiani casa-lavoro è possibile, ma bisogna evitare che diventi un “privilegio” concesso dai datori di lavoro, o un permesso strappato a maldisposti dirigenti della pubblica amministrazione.

I disagi di un trasferimento di massa, le complicazioni di una conciliazione lavoro/famiglia sperimentata nella condizione estreme del lockdown o del susseguirsi di quarantene, non ha ridotto l’interesse per la possibilità di arrivare a forme più flessibili e individualizzate dell’orario lavorativo. È un interesse da leggere fra le righe che non sottostima la necessità di un sistema di regole chiare che tenga in equilibrio diritti e doveri di tutti e che metta in circolo, redistribuendoli, i guadagni che sembrano evidenti da parte delle Aziende (diminuire la presenza dei dipendenti in sede, diminuisce i costi, va da sé).

Il desiderio di voler continuare a lavorare anche a distanza verificato da indagini e ricerche, soprattutto se letto secondo un’ottica di genere, aspira a un miglioramento di quanto sperimentato fin qui. ll lavoro agile non può essere inteso come una misura di conciliazione tout court, semmai come uno degli elementi a disposizione per una riprogettazione su larga scala dei tempi e dei luoghi del vivere e del lavorare.

La possibilità di lavorare da remoto, di organizzare diversamente il tempo quotidiano, deve essere inserita in una serie di aggiustamenti che riguardano la vita sociale nel suo complesso, welfare compreso, senza lasciare alle donne il compito di prendersi cura di tutto quello che non torna. Eppure la possibilità di adottare un modello di lavoro agile, modulare e articolato e che prevede forme di autogestione sembra rientrare nelle prospettive di molti lavoratori e lavoratrici dipendenti.

Al momento leggere questo desiderio di lavoro agile, parziale, flessibile, modulare non è difficile. Dopo due anni di pandemia da più parti si leggono i segnali di una resistenza a riprendere il ritmo come niente fosse, alle condizioni di sempre, nel quadro di un’economia della crisi a cui, anche in Italia, si è risposto con la richiesta di una disponibilità crescente da parte di chi ha un lavoro o di chi lo cerca: livelli retributivi incongrui e inadeguati e precarietà diffusa.

I luoghi di lavoro sono stati abitati da logiche che mentre inneggiano il benessere organizzativo naturalizzano la competitività o, quando va meglio, la produttività intensiva e il ritmo accelerato. Forse il desiderio di alternare lavoro a distanza e lavoro in presenza va letto semplicemente così, come il desiderio di allentare la presa, di scegliersi il modo di lavorare, di complicarsi la vita con un’organizzazione da inventare (perché non diventi più solitaria e oppressiva) ma che ritrovi un ritmo diverso.

Decelerare. E’ un’aspirazione più che una certezza, ma c’è. Abbiamo visto che a distanza si può anche lavorare di più, che si corre il rischio – senza un orario rigido – di lavorare sempre, lasciando il computer sempre acceso sul tavolo o in testa, ma l’aspirazione resta. Non si tratta solo di risparmiare ore di traffico, e già questo non è poco, o gli spostamenti ripetitivi che tolgono ai pendolari ogni giorno ore di vita, si tratta del desiderio di sottrarsi alle ansie di prestazione proprie e altrui.

Certo si possono trasferire a casa, ed è questo il rischio più grande su cui azionare dispositivi di protezione, ma c’è qualcosa nell’alternanza dentro-fuori (che dovrebbe essere il cuore del lavoro agile), in quella flessibilità, in quella possibilità di autogestione che lascia sperare in un miglior uso del tempo, in giornate più equilibrate e, perché no, più sensate.

Stanno succedendo altri fenomeni da leggere così, nel pieno di contraddizioni evidenti. Richieste di lavoro che vanno deserte, intere categorie che reclamano la mancanza di lavoratori e lavoratrici, dimissioni volontarie. Forse è il momento, uscendo da questa ennesima sovrapposizioni di crisi, di ripensare il lavoro, semplicemente di pagarlo di più, di dotarlo dei diritti adeguati e di uscire dalla logica verso cui anche la pandemia ci ha spinti, per cui tutto quello che dovrebbe essere normale ha preso il nome di privilegio.

* ricercatrice
Ha svolto per Ires_CGIL la ricerca: «Due anni di smart working. L’esperienza delle donne in Toscana»