À la guerre comme à la guerre, davanti al televisore come semplici spettatori. Sta facendo discutere il caso della serie in otto puntate Slovo Patsana. Krov na asfalte (Parola di ragazzo. Sangue sull’asfalto), uscita online lo scorso novembre e presto diventata un successo clamoroso sia in Russia, dove è stata prodotta, sia in Ucraina – nonostante il feroce conflitto che imperversa da quasi due anni. Apparentemente, infatti, un altissimo numero di utenti che si trovano nel paese invaso dalle truppe di Putin stanno aggirando il blocco imposto dal proprio governo verso tutto ciò che proviene da Mosca, che si tratti di film, libri o musica, per scaricarla e vederla. Persino il ministero della Cultura si è espresso pubblicamente, per provare a porre freno alla sua popolarità: «Consumando e facendo circolare articoli prodotti dallo stato aggressore, si contribuisce indirettamente a finanziare l’esercito russo», si legge in un comunicato ufficiale. «Chiediamo a ogni cittadino dell’Ucraina di decidere coscientemente e di smettere di consumare prodotti russi per sempre. Dobbiamo restare uniti nelle nostre posizioni».

Parole che, se hanno trovato seguito presso alcuni personaggi di spicco come per esempio l’ex-presidente Petro Poroshenko (che si è dichiarato a favore del boicottaggio della serie), non sembrano influenzare troppo il pubblico: anche la canzone Piyala del gruppo russo Aigel, colonna sonora di Slovo Patsana, ha raggiunto il primo posto nella classifica di Apple Music dei brani più ascoltati in Ucraina.

COSÌ IN RUSSIA: il titolo della serie rappresenta la ricerca più diffusa sui motori digitali all’interno della Federazione (addirittura, secondo i dati di Yandex, dal 9 novembre al 6 dicembre la ricerca è stata effettuata sul loro portale da 45 milioni di utenti, un numero di gran lunga superiore alle richieste che avevano per oggetto “guerra in Ucraina” nell’intero arco dell’ultimo anno, poco più di 32 milioni), mentre sul popolare database cinematografico Kinopoisk Slovo Patsana ha già raggiunto il quarto posto nell’indice di gradimento di tutti i tempi, superando classici come I Soprano o Friends.

SE PURE NEL PAESE aggressore l’opera di Zhora Kryzhovnikov (nome d’arte del regista, al secolo Andrey Pershin) sembra dunque convincere il pubblico, lo stesso non si può dire delle autorità. Irina Volynets, commissaria per i diritti dell’infanzia nella repubblica del Tatarstan (dove è ambientata la serie), ha inoltrato una richiesta ufficiale per bloccare la distribuzione del prodotto mentre il presidente della regione, Rustam Minnichanov (governatore che è sotto sanzioni da parte degli Usa per il suo sostegno all’invasione dell’Ucraina), si è detto preoccupato per il modo in cui la serie “romanticizza” una questione controversa nella storia della Russia.

Slovo Patsana racconta infatti del cosiddetto “fenomeno Kazan”: un’ondata di criminalità per bande, composte soprattutto da giovani e minorenni, che ha cominciato a interessare la capitale del Tatarstan negli anni ‘70 e ha continuato per diversi decenni, caratterizzandosi come una lotta di “accumulazione territoriale”, per il controllo cioè dei diversi quartieri della città e per l’accaparramento di risorse e ricchezze che servivano a guadagnare profitto attraverso l’economia informale (la parola patsana del titolo sta a indicare chi diventava membro di questi gruppi criminali, stretto ai suoi “compagni” da un patto di solidarietà e da un codice di comportamento para-mafiosi. Il breve documentario del 1987 A u vas vo dvore, le cui immagini peraltro appaiono a un certo punto della serie, rivela questa realtà in presa diretta). L’opera, inoltre, si basa sull’omonimo libro-inchiesta del giornalista Robert Garaev, che ha lavorato come consulente durante le riprese.

MA DA DOVE ARRIVA il successo trasversale di Slovo Patsana e cosa dice dell’oggi? Alcuni, in Ucraina, accusano l’opera di essere nient’altro che “propaganda” a favore di Putin, facendo notare tra le altre cose come sia finanziata dall’Istituto russo per lo sviluppo di internet, struttura che fornisce fondi a “contenuti patriottici” e che al momento, assieme al ministero della Cultura, è l’unico ente di sostegno alla produzione cinematografica del paese. D’altra parte, i nomi dei membri del gruppo musicale Aigel (Aigel Gaisina e Ilya Baramiya), che ha composto la canzone-simbolo della serie, non vengono menzionati nei titoli di coda per via delle loro posizioni di contrarietà alla guerra in corso (fatto che li ha anche spinti a lasciare la Russia) e fra gli attori compare il figlio del cantautore e musicista Andrei Makarevich (fondatore dei celebri Mashina Vremeni), più volte critico delle politiche belliche del Cremlino.

AL DI LÀ DEI DETTAGLI, però, la realtà è che Slovo Patsana rappresenta un “classico” prodotto true crime che gioca con la fascinazione per le subculture delinquenziali e per la psicologia dei loro anti-eroi (in tanti hanno ricordato la famosa pellicola Brat di Aleksei Balabanov), senza avere un messaggio politico diretto o uno stretto legame con l’attualità.

La regia di Kryzhovnikov segue le peripezie dei suoi personaggi, intrise di misfatti e violenza, quasi come si trattasse di coreografie rituali, con delicato realismo teso a far risaltare i cromatismi del paesaggio urbano, dai cortili condominiali ricoperti di neve agli arredamenti standard degli interni, fino ai viali cittadini scarsamente illuminati.

Sullo sfondo, il senso di incertezza del periodo della perestrojka (siamo alla fine degli anni ‘80: «Hai sentito cosa ha detto Gorbachev? Nel giro di un anno gli americani saranno qui», asserisce uno dei protagonisti, che ha appena fatto ritorno dal conflitto in Afghanistan) e la consapevolezza strisciante che un intero ordine socio-simbolico si sta sfaldando: ciò che mostra Slovo Patsana è in effetti l’incapacità di qualsiasi contesto comunitario dell’epoca, dai legami familiari alle relazioni educative, dalle istituzioni politiche alla repressione poliziesca, fino allo stesso codice di comportamento delle bande criminali, di offrire un pieno senso di realizzazione esistenziale e di adempimento della giustizia collettiva («Voi semplicemente non credete in nulla», dice una poliziotta a un membro delle bande criminali. «E tu a cosa credi? A Lenin?», le si controbatte. «Nella legge», risponde lei, anche se noi spettatori sappiamo che, una volta dismessa l’uniforme a fine giornata, si ritrova nel movimento semi-illegale di contestazione culturale dei nieformalny).

Forse la serie sta facendo così tanto successo semplicemente perché è un prodotto godibile, e avvincente. Forse perché, indirettamente, riflette un bisogno inconscio (e talvolta silenziato) che attraversa ora la popolazione sia russa che ucraina: capire che cosa succede quando si chiude un capitolo storico e finisce un intero sistema di valori, mentre ancora tutt’attorno – fra l’asfalto e le trincee – purtroppo scorre sangue.