Possibile che dopo sei anni non abbiamo ancora imparato la lezione? Dobbiamo smettere di chiedere giustizia ad Al Sisi su Giulio Regeni. Quello è un dittatore, non ce la darà mai. Proteggerà sempre i suo scherani e torturatori. Al Sisi è un mascalzone. Basta ricordarsi quando nel 2018 disse al nostro ministro degli Esteri Di Maio: «Giulio è uno di noi». Ma noi italiani siamo brava gente, tollerante e un po’ stupida, o forse ci piacciono un po’ troppo gli uomini forti. Non come il premio Nobel della letteratura Orhan Pamuk che ebbe il coraggio, in solitudine, di dichiarare nell’estate del 2013 che il colpo di stato militare del generale Al Sisi era «come quello di Pinochet in Cile nel settembre 1973».

Due settimane prima del golpe di Al Sisi ero al Cairo dove stavo girando un documentario sulle primavere arabe con il regista Italo Spinelli. Mentre sul ponte dei Leoni manifestava il movimento anti-Morsi di Tamarud, dentro l’ambasciata italiana incontravamo una sfilata di rappresentanti dei Fratelli Musulmani invitati dall’ambasciatore Massari. Pochi giorni dopo Al Sisi con un golpe sanguinoso, li fece sparire tutti (uccisi o in carcere). Passò un anno e il presidente del Consiglio Renzi, acclamato dalla stampa per la sua lungimiranza, fu il primo leader occidentale a incontrare Al Sisi. Ma Renzi è anche quello che va a braccetto con il principe assassino Mohammed bin Salman, che ha fatto a pezzi il giornalista Jamal Khashoggi, e lo definisce «un principe rinascimentale».

È a noi stessi come Paese, come Stato, che dobbiamo chiedere giustizia. E dignità. Non al macellaio Al Sisi. Ma noi giustizia non la vogliamo perché altrimenti avremmo smesso da un pezzo di vendergli le armi di Leonardo e le navi di Fincantieri, due aziende la cui maggioranza è in mano allo stato. Noi difendiamo prima di tutto i fatturati, mica la giustizia e la dignità. Quando si tratta di proteggere i nostri valori prima guardiamo al portafoglio, poi al cuore.

Ecco perché in tutti questi anni lo Stato italiano ha continuato a vendere armi ad Al Sisi e continua farlo, come spiegava ieri sul manifesto Chiara Cruciati. È così che abbiamo consegnato in mano ad Al Sisi la dignità della nostra magistratura e del nostro Parlamento. «Se non le vendiamo noi le armi ad Al Sisi, lo faranno gli Stati uniti e la Francia. Non si possono condizionare le relazioni con l’Egitto alla famiglia Regeni», è il ritornello dei nostri politici e diplomatici.

Poi è arrivato il caso Zaki, perché dalle nostre parti si sono dimenticati cos’è davvero una dittatura: il dittatore non si accontenta di colpirti una volta sola, lo fa due volte per farti capire chi comanda, nel caso non lo avessi ben compreso. Al Sisi comanda non solo in Egitto ma anche da noi. In maniera strisciante in questi anni si è posto a capo dell’Italia che continua a dire di volere giustizia ma è incapace di prendere qualunque posizione concreta, anzi finisce per corteggiarlo e cedere ai suoi voleri. Al Sisi ha umiliato la democrazia in Egitto e in Italia, ha messo sotto i piedi la nostra magistratura, la nostra politica, sbeffeggiato la nostra diplomazia. Siamo i suoi zimbelli.

Il raìs è più forte della nostre democrazia, non solo di quella italiana. Lo dimostra tutti i giorni. Può permettersi di ammazzare Regeni, mettere in carcere Zaki mentre migliaia di persone in Egitto spariscono senza che nessuno protesti – tranne Amnesty naturalmente. Anzi Al Sisi viene costantemente premiato. Gli Stati Uniti gli regalano ogni anno 1,5 miliardi di armi, il presidente Macron lo ha insignito della Legione d’Onore e collabora attivamente con lui nell’eliminare i dissidenti con i sistemi francesi di sorveglianza satellitare gestiti dai servizi di Parigi. Non c’è vertice importante sul Mediterraneo e l’Africa dove Al Sisi non sia presente. Vedete bene come è ridicolo quel Trattato del Quirinale firmato qualche giorno fa Roma: non si è detta una parola sul caso Regeni o sulla democrazia nel Mediterraneo. Il Trattato del Quirinale è una pietra tombale: Macron è un’abile lingua di legno amicissimo di Al Sisi venuto qui a prenderci in giro per conto del generale.

Il premier Draghi un giorno si è lasciato scappare che Erdogan è un «dittatore». Ma su Al Sisi non ha niente da dire, anzi con lui il 12 novembre ha partecipato a Parigi al vertice sulla Libia. Siamo certi che in questa occasione Draghi ha preso da parte Al Sisi e gliene ha dette quattro, reclamando giustizia immediata per Regeni e la liberazione di Zaki. Ma, strano, sui giornali italiani non se ne è parlato: forse Al Sisi ha messo la censura.
Il realtà il dittatore ci conosce benissimo. Sa che non siamo capaci di ottenere giustizia e calcola le nostre reazioni: non ce la prenderemo con lui ma ci beccheremo tra noi, come i polli di Renzo. Siamo sottomessi non a una dittatura sanitaria, come pensano i «No Vax», ma a una dittatura vera, quella del Pinochet del Mediterraneo.