Cosa resta di quel 4 agosto di due anni fa? Le 18.08, una caldissima giornata di un afoso agosto, da mancare il respiro. Una prima esplosione, tutti a guardare verso il porto. Un attacco israeliano, si pensa d’istinto: è ancora vivo il ricordo della guerra del Tammuz nel 2006 e della guerra civile (1975-90).

Qui le incursioni sono giornaliere e tra amici si fa a chi è più bravo a riconoscere i modelli di caccia dal suono che fanno. Nessuno ha pensato alle 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio stoccate dal 2014 al porto nel capannone 12, dopo il sequestro nel 2013 della nave moldava Rhosus.

NESSUNO AVEVA mai immaginato che una tragedia del genere potesse accadere. Circa 250 morti, 7mila feriti, 300mila sfollati. Pochi istanti e un’onda con un raggio di 200km avvertita fino a Cipro e in Siria, travolge e sventra Beirut, fa crollare gli edifici più vecchi, fa esplodere le finestre, saltare le porte.

In pochi istanti è tutto polvere, sangue e vetri. I racconti dei sopravvissuti sono di scene apocalittiche. «Dopo quasi due anni mi pietrifico ogni volta che sento i fuochi d’artificio», racconta Raya, 30 anni. Viveva al terzo piano di una palazzina di fronte all’ospedale di Geitawe, in linea d’aria un paio di chilometri dal porto, come tanti non sa ancora come sia sopravvissuta.

«Facciamo in modo che le persone non dimentichino. In Libano, ogni volta che c’è un crimine le persone tendono a rimuovere. Ogni 4 del mese siamo in strada, organizziamo cortei e manifestazioni. I nostri avvocati stanno facendo il possibile per ottenere giustizia. Nonostante tutto quello che stiamo vivendo, la crisi, la situazione economica, ognuno di noi se interrogato sulla questione sente ancora sulla propria pelle tutto quello che è accaduto il 4 agosto».

Il porto di Beirut il giorno dopo l’esplosione del 4 agosto 2020. Al centro i silos di grano costruiti negli anni ’60 e ora a rischio demolizione foto (Ap/Hussein Malla)

ECCO COSA RESTA e cosa deve restare secondo Mariana Fodoulian, 32 anni, veterinaria, sorella di Gaya uccisa dallo scoppio e presidente del comitato dei familiari delle vittime: la memoria, non dimenticare affinché giustizia sia fatta.

«La giustizia che chiediamo non è solo per le vittime, ma per tutti i libanesi. Nessuno qui è stato mai punito per i crimini commessi anche prima dell’esplosione. Noi vogliamo aprire la strada a un nuovo corso. La mia famiglia non vive in Libano. Sarei potuta andare via, ma voglio restare qui. Anche mia sorella era stata tre anni in Svizzera e uno in Italia a studiare, ma poi aveva deciso di tornare, amava il Libano».

Alla domanda su quanto sia strumentale l’impegno del mondo politico che riecheggia nelle dichiarazioni a mezzo stampa, Fodoulian, che appartiene alla generazione che ha creduto nella thaura, la rivolta popolare scoppiata all’inizio della crisi finanziaria il 17 ottobre 2019 contro la classe politica in toto, risponde in maniera nettissima: «Non ci fidiamo di nessuno nella classe politica, nemmeno di chi dice di supportarci. Se così fosse, farebbero qualcosa di concreto, andrebbero o manderebbero i colleghi a processo, smetterebbero di contrastare il corso della giustizia, mentre continuano a rifugiarsi dietro l’immunità parlamentare».

GIÀ LA SCELTA del giudice era stata difficile. Fadi Sawwan, a cui il processo era stato assegnato, fu sostituito con la motivazione di essere troppo coinvolto emotivamente dopo appena sei mesi dall’attuale Tariq Bitar, che aveva rifiutato precedentemente l’incarico. Tra i due anche Samer Younes, scartata due volte perché considerata troppo vicina al presidente delle repubblica Aoun.
Lo stesso Bitar non è stato e non è esente da critiche.

Gli scontri armati – sette morti e una trentina di feriti – del 14 ottobre scorso tra Amal/Hezbollah e il partito di ultradestra cristiana delle Forze libanesi avvennero proprio in occasione di una manifestazione degli sciiti contro la presunta politicizzazione del giudice.

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Il processo, tra mille problemi e ricorsi all’immunità sembra insabbiato. Sono state arrestate solo figure di poco conto che rischiano di diventare capri espiatori, mentre le responsabilità effettive non sono state ancora attribuite. Una cosa però il processo l’ha acclarata: chi di dovere, le alte sfere politiche e militari erano a conoscenza del pericolo rappresentato dal nitrato di ammonio.

CON UN TEMPISMO eccezionale è crollata domenica parte dei silos diventati simbolo della catastrofe e che avevano aiutato ad assorbire l’onda e a risparmiare almeno in parte a Beirut ovest il destino di Beirut est, indescrivibile dopo la deflagrazione. Le macerie avevano intrappolato svariate tonnellate di grano che, in stato di avanzata fermentazione, sono state il focolaio dell’incendio che ha provocato l’implosione di parte della struttura. Lo stesso incendio mette ora in pericolo la stabilità del resto dei silos.

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«Sono convinta che l’incendio non sia stato spento di proposito. Che scusa è quella di non avere i mezzi adatti, quando abbiamo visto anche con l’esplosione che quando abbiamo avuto bisogno altri stati, la Francia ad esempio, ci hanno aiutato? Ora il fuoco ha creato una situazione pericolosa e noi esperti non siamo ammessi sul sito», tuona Divina Abou Jaoude, dell’ordine architetti e ingegneri libanesi e membro del comitato «Il testimone silenzioso», composto da architetti, urbanisti, ingegneri, intellettuali e società civile che prende il nome dalla petizione lanciata a luglio e che vuole preservare il valore architettonico e simbolico dei silos.

Il parlamento aveva votato il 16 marzo scorso una risoluzione affinché i silos fossero abbattuti, ma il provvedimento era stato sospeso dopo la proposta del ministro della cultura Mortada di metterli sulla lista del patrimonio nazionale. Il 14 aprile, tuttavia, un’altra risoluzione metteva da parte la proposta.

Cita poi Le déclassement français di Chesnot e Malbrunot freschissimo di stampa: Hezbollah lascerebbe alla Francia – che avrebbe interesse ad abbattere i silos – la ricostruzione e i traffici al porto in cambio di riconoscimento. Tesi che, legittima o meno, è indicativa di quanto importanti siano in Libano le influenze esterne.

«NULLA VIENE fatto in Libano senza intervento esterno. Invece noi architetti, ingegneri, società civile dovremmo essere coinvolti. I silos, costruiti negli anni ’60, hanno un alto valore architettonico per le tecniche innovative utilizzate nella costruzione e in quanto rappresentazioni del Modernismo libanese. Erano inoltre già simboli della memoria collettiva per i libanesi prima dell’esplosione e ora lo sono certamente di più. L’architettura è lo specchio della società e noi rifiutiamo questa amnesia. I silos ci servono per il nostro processo di guarigione».

Il paese attraversa dal 2019 la crisi economico-finanziaria più profonda della sua storia. Chi ha potuto ha già lasciato il paese. Con un’inflazione e una speculazione ormai fuori controllo, una crisi del settore energetico che lascia per oltre metà giornata senza elettricità, aumenti esponenziali della benzina e dei prezzi di generi primari e secondari, in Libano anche prima della guerra in Ucraina c’era una vera e propria crisi alimentare per oltre l’80% della popolazione, certificata dalla Fao e da altre agenzie.

SONO PREVISTE manifestazioni nel pomeriggio per la giornata della memoria. Chi è rimasto in Libano è esasperato e non ha più niente da perdere. Dopo tre anni di crisi, dopo aver visto prima congelati e poi svaniti i propri risparmi in banca, il fallimento de facto della thaura, il rafforzamento e la benedizione internazionale di quell’establishment che ha portato il paese alla situazione attuale, l’emergenza Covid, la corruzione, il nepotismo, la soverchieria di sempre, l’ennesimo tentativo di distruzione della memoria è un boccone amarissimo da mandare giù.

Quel che resta del 4 agosto 2020 è la tenacia con cui Davide combatte un Golia che vuole cancellare la memoria e la dignità di un popolo ferito, umiliato, che prova come può, come sa, con i suoi tanti limiti, a non abbassare la testa.