Con la batosta del presidente Mauricio Macri alle primarie dell’11 agosto – stravinte dal candidato peronista di centro-sinistra Alberto Fernández, affiancato dall’ex presidente Cristina Fernández de Kirchner – uno tsunami sembra aver travolto l’Argentina.

L’ultima tegola caduta sul governo è stata quella delle dimissioni del ministro del Tesoro Nicolás Dujovne, convinto della necessità di «un rinnovamento significativo nell’azione economica del governo» di fronte alla gravità della crisi. Dimissioni con auto assoluzione finale: il grande artefice del prestito da 50 miliardi di dollari concesso dal Fondo monetario internazionale, ha, sì, parlato di «errori», ma ha spiegato di aver «fatto tutto ciò che era possibile per correggerli», rivendicando il merito di aver tenuto il deficit sotto controllo e di aver tagliato la spesa pubblica.

A sostituirlo è stato chiamato Hernán Lacunza, ex direttore generale della Banca centrale e attuale ministro dell’Economia della provincia di Buenos Aires. Sarà a lui a dover fronteggiare la maxi svalutazione del peso, che ha perso fino al 30% del suo valore rispetto al dollaro, e il crollo del 31% della Borsa (più dell’8% nella sola seduta di venerdì), con il declassamento del rating del debito sovrano da parte delle agenzie Fitch e S&P e la conseguente crescita del rischio default per il Paese.

Una vera mazzata per il governo Macri: se S&P ha abbassato il giudizio da B a B-, con outlook negativo, Fitch ci è andata giù ancora più pesante, tagliando il rating da B a CCC e così portando l’Argentina allo stesso livello di paesi come Zambia e Congo.

Di fronte al tracollo elettorale – i 3 o 4 punti di svantaggio attesi da Cambiemos sono diventati addirittura 15 (32,08% contro il 47,65% del Frente de Todos) -, Macri ha cercato di correre ai ripari, lanciando un pacchetto anti-crisi che prevede, tra l’altro, un aumento del salario minimo del 25%, il taglio delle tasse per le fasce più povere, un aumento degli assegni sociali, un calmiere di tre mesi per i prezzi delle benzine . Misure tuttavia che, se da una parte mettono a repentaglio proprio quell’equilibrio dei conti promesso al Fmi in cambio del prestito ricevuto lo scorso anno, dall’altro appaiono a una popolazione esasperata e terribilmente impoverita troppo deboli e tardive. In questo senso, la sonora sconfitta di Macri è molto più di un cattivo segnale in vista delle presidenziali del 27 ottobre.

Se le primarie dell’11 agosto sono state lette come una sorta di referendum sull’accordo con il Fmi – diventato sinonimo di sciagura per il popolo argentino – e più in generale sulla politica di segno ferocemente neoliberista applicata dal governo, il risultato finale esprime piuttosto un cambiamento irreversibile nel clima politico del Paese. E così sembrano indicare anche le manifestazioni di protesta degli ultimi giorni a Buenos Aires e nella provincia di Chubut. Con la possibilità – è questo perlomeno l’auspicio dei movimenti popolari – di una successiva inversione di tendenza in tutta la regione latinoamericana.