Nel Canone occidentale del critico Harold Bloom uscito nel 1994 ci sono ventisei scrittori di cui quattro donne, tutte bianche. Oggi per un critico letterario sarebbe impossibile e indecente stilare una lista simile. Questo lo dobbiamo a un’industria culturale più varia e attenta alle diversità, soprattutto nel mondo anglosassone, dove è diventato sempre più frequente imbattersi in esordi felici, impensabili qualche decennio fa, come Una casa è un corpo di Shruti Swamy (traduzione di Eva Kampmann, Racconti, pp. 203, euro 17). L’abbiamo intervistata a proposito di questi suoi racconti, che parlano di America e di India, di attese e alienazione, tra città contemporanee e suggestioni dal Ramayana.

La sua raccolta lascia intendere a una prima lettura come un corpo sia un sistema difensivo, una casa, un luogo in cui barricarsi. Eppure lei è in grado di mostrare come i corpi siano aperti agli altri e all’ambiente circostante.
Non ho mai davvero considerato una casa come un sistema di difesa, ma nel racconto che dà il titolo alla raccolta sembra quasi che la mia protagonista si muova in questa direzione, restando in casa nonostante gli avvertimenti con un incendio incombente. Perfino in questa storia, tuttavia, la premessa è falsa. La casa è porosa e vulnerabile rispetto al suo ambiente. Ci sono modi in cui siamo confinati nei nostri corpi, in cui questi ci proteggono, in cui le nostre esperienza sono individuali e insostituibili. Ma io sono chiaramente più interessata a come siamo interdipendenti, all’effetto che abbiamo sulle altre persone, e a come – anche se in modo imperfetto – riusciamo a raggiungere l’esperienza dell’altro e a lasciarcene plasmare. Ho sempre fatto esperienza del mondo tramite il corpo, e la bellezza ha sempre avuto un significato profondo per me. Per esempio, essere in grado di immaginare le esperienze fisiche dei miei personaggi, come gli scambi emotivi si sedimentano nei loro corpi, spesso mi aiuta a entrare nella storia in modo immediato.

I suoi racconti sono come perle sullo stesso filo di una collana, ognuno prezioso in sé ma che acquista più valore all’interno della collezione. Come ha costruito la raccolta?
Ho lavorato su questo libro per dieci anni, e sono cambiata molto come scrittrice dal primo racconto all’ultimo (il primo che ho scritto è stato «Cecità», l’ultimo «Una casa è un corpo»). Mi è stato subito chiaro come fossi interessata a certi temi che univano i racconti, e durante la scrittura ero orientata alla creazione di una raccolta che fosse definita dalla voce e dalla prospettiva. C’è qualcosa che il racconto può fare e il romanzo no – a dire la verità ce ne sono molte – perché il racconto è un flash che dura un attimo nell’oscurità, o un temporale che passa intenso ma veloce. Mettere insieme un romanzo mi sembra più tecnico, c’è bisogno di tenere sotto controllo la meccanica della struttura e della trama, ci sono momenti in cui devi portare i tuoi personaggi dal punto A al punto B, mentre creare una raccolta di racconti riguarda più toni e atmosfere. Bisogna cercare di non ammucchiare insieme tutte le storie difficili, lasciando abbastanza spazio tra racconti che esplorano un terreno simile, affinché non sembrino ripetitivi ma risuonino l’uno con l’altro, pensandoli dall’inizio alla fine come un insieme armonico.

L’epica indiana del «Ramayana» racconta di miti e saperi collettivi, che ha saputo rimodellare nella contemporaneità della sua scrittura. Qual è il suo rapporto con la mitologia, e quanto è importante nella costruzione del suo mondo letterario?
Sono cresciuta con l’epica hindu e con le favole indiane, assieme a molte altre storie inventate da mio padre, e racconti della vita dei miei genitori durante la loro gioventù in India. Questo folklore ha contribuito profondamente a plasmare la mia visione del mondo e il mio approccio alla scrittura. Come figlia di immigrati indiani in America, ci sono state volte in cui ho esitato a rivendicare alcuni aspetti della cultura indiana, interrogandomi se, come americana, io avessi il diritto di farlo. Ma queste storie mi appartengono, perché sono cresciuta ascoltandole – sono familiari. Ci sono molte cose che i miei genitori hanno cercato di donarmi nell’infanzia, come la lingua, la musica classica e la danza, cose che io non sono stata in grado di accogliere e che in qualche modo ho ignorato. Ma quest’epica è un regalo che loro mi hanno dato gioiosamente e che allo stesso modo ho fatto mio, quando ero così piccola che non me ne sono resa conto finché non ho scritto i miei racconti e ne ho ritrovato l’assonanza. Le storie come quelle che compongono il Ramayana resistono nel tempo perché sono particolari e complesse, e benché in superficie sembrino solo favole di eroi e antagonisti, nel profondo questi personaggi prendono decisioni moralmente complicate e sorprendenti. È stato spesso doloroso e alienante, ma è anche una ricchezza essere cresciuta con genitori immigrati che hanno potuto offrire le loro storie e, attraverso queste, uno sguardo diverso sul mondo. Mi ha dato una sincera flessibilità ed elasticità di pensiero, l’abilità di contenere molteplici verità.

Due parole, e due temi, sembrano centrali: alienazione e casa. I suoi personaggi si sentono a casa, anche quando non pensano di appartenere a un luogo particolare? Come si spostano tra queste due suggestioni?
Queste due idee contrastanti, e la tensione che ne deriva, sono una parte essenziale della mia identità di donna indiana americana. Quando sono diventata adulta per me è stato spiazzante non trovare mai uno specchio della mia immagine nella cultura americana, e nemmeno in quella indiana. Ho scritto questi racconti per dare un senso al mondo del quale apparentemente non facevo parte, per rivendicarne l’appartenenza. Lavorare a questo libro, persino sulle storie più tristi, è stato il mio modo di costruire la mia identità, di dare nome e voce ai sentimenti e agli stati d’animo di cui ero pervasa e dargli importanza rendendoli visibili, per me prima che per i lettori. La raccolta si intitola in inglese A House Is a Body, ma si sarebbe potuta chiamare A Home Is a Body, per dare enfasi al senso di appartenenza, di rifugio e conforto di un luogo, che i personaggi siano o meno in armonia con ciò che li circonda, e i propri corpi, e la conoscenza che ne deriva – mi sembrava un buon punto di partenza.

La sua è una lingua precisa e calibrata a seconda dei personaggi e delle emozioni che assecondano la storia. Fa ricerca sul linguaggio mentre scrive, o ha un approccio più fluido e intuitivo?
Il mio processo di scrittura è fluido e intuitivo, e più scrivo più mi rendo conto che zittisco quella parte logica e critica che potrebbe estinguere il mio desiderio di scrivere, almeno finché non ho una bozza. Poi ho bisogno di quella logica per lavorare all’editing. Per me è molto importane il ritmo mentre scrivo, per accordare il linguaggio e il testo nelle sue corrette proporzioni. Se lavoro in silenzio, posso sentire le frasi nella mia testa e seguirle finché non sono loro a condurre il gioco.

Qual è il rapporto tra letteratura e arte, visto che l’arte compare spesso nei suoi racconti?
Penso che scrivere di arte e danza – il mio romanzo (The Archer, pubblicato in America da Algonquin Books) è incentrato su una danza classica indiana chiamata kathak – sia il modo in cui desidero esprimermi con altri mezzi quando mi sembra che il linguaggio mi limiti. Invidio molto il modo in cui la danza sia in grado di comunicare così tanto in modo immediato, senza lottare con le parole; allo stesso modo credo che riesca a farlo la pittura. Amo la corporeità di entrambe le discipline, perché ritengo che la scrittura sia un’esperienza incorporea, dove l’intera coscienza è canalizzata verso gli occhi e le dita e il resto del corpo è lasciato indietro. C’è una grande disciplina in queste altre forme d’arte, ma anche la possibilità di esprimere una natura animale e selvaggia che è molto più dura da esternare con la sola scrittura.
C’è qualcosa di elettrizzante nella scrittura ecfrastica, che mentre interpreta l’arte attraverso il linguaggio, non solo la descrive ma le dà un nuovo significato. Ho appena riletto la recensione sul New Yorker di Sasha Frere-Jones del 2012 all’album di Fiona Apple, e mi ha colpito come sia necessario entrare in profondità nell’arte di qualcuno per poterla descrivere completamente, non come una collaborazione ma decisamente come una relazione molto più intima. Amo il modo in cui si può piegare il linguaggio per accogliere ciò che, per definizione, è difficile o addirittura impossibile da trasformare in parole. In questo senso, tutta la scrittura è una scrittura ecfrastica, sempre in cerca di definire ciò che non può essere nominato.

C’è una nuova generazione di scrittrici e scrittori americani con un background eterogeneo, che rivendica e costruisce una risonanza culturale e il diritto all’autodefinizione in un ambiente letterario a predominanza bianca. Si sente parte di questa nuova ondata di autori, e cosa legge?
Sono sicuramente dalla parte degli autori marginalizzati a causa del background, e sono grata del loro lavoro. Ora sto leggendo molta letteratura in traduzione. Ho letto Natalia Ginzburg tradotta dall’italiano, grazie al consiglio della mia amica scrittrice Meng Jin, e in particolare mi ha ispirata molto Lessico famigliare. Dall’India ho amato Ambai e Gitanjali Sri, dalla Germania Esther Kinsky, dalla Francia Marguerite Duras. Ho una predilezione per le scrittrici australiane Michelle de Krester e Helen Garner, e per il magnifico Popisho dell’inglese Leone Ross. Mi piace leggere in modo avventuroso, ingaggiare una battaglia con i libri e trarne piacere, soprattutto con le opere che si muovono lentamente, che restano impenetrabili. Voglio anche aggiungere che la magia della traduzione adesso ha un effetto su di me anche nella direzione opposta: è un onore per me essere tradotta in italiano, mi è arduo immaginare come i lettori incontreranno le mie storie nella loro bella lingua, che io non parlo. Spero che nei miei racconti possano trovare anche qualcosa di loro.