A più di sei mesi dal 7 ottobre Shimon Adaf, poeta, scrittore e musicista israeliano nato da una famiglia di origine marocchina a Sderot, una delle città sfollate nel sud di Israele all’inizio della guerra a Gaza, non accetta di dover «continuare a vivere sempre in guerra», e allo stesso tempo è deluso dall’ostilità dei partiti progressisti europei. Secondo Adaf, la criminalizzazione dello Stato ebraico «alimenta la retorica della destra israeliana, già convinta che tutto il mondo sia contro di noi; per non parlare della destra mondiale che spesso usa Israele in maniera strumentale per portare avanti i propri obiettivi».

Come vive questa situazione la sinistra israeliana, con le accuse di genocidio e gli studenti universitari in piazza che chiedono il boicottaggio?
La sinistra israeliana ha sempre fatto riferimento ai movimenti progressisti e liberali di tutto il mondo, ma ora la sensazione è che ci abbiano lasciati soli: è come se ci fosse una rimozione totale delle perdite israeliane ed esistessero solo quelle palestinesi. Ciò ovviamente non significa che le critiche a Israele non siano legittime, ma ignorare il fatto che la gente di qui sia stata uccisa e bruciata nelle proprie case, non riconoscere la sofferenza degli ostaggi, delle donne violentate, mi sembra disumano – nella stessa misura in cui sono disumane le azioni di Israele in questa guerra.

Come giudica la polarizzazione che si è creata nel dibattito pubblico sul conflitto in Medio oriente?
Siamo pervasi da un pensiero dicotomico, hollywoodiano, in cui l’impero del male conquista una minoranza mansueta e pacifica, e noi spettatori ci identifichiamo con i guerrieri per la libertà. Ma fatta eccezione per casi molto particolari, questo non è mai avvenuto nel corso della storia. È una fantasia in cui l’Occidente continua a cullarsi, forse per liberarsi dei sensi di colpa dovuti al suo passato colonialista. A mio parere la questione è invece di tipo pratico. Se cominciamo ad andare indietro nel tempo, concentrandosi sulla questione di chi abbia più diritti su questa terra anziché su come trovare una soluzione, non si arriva da nessuna parte. E il prisma del colonialismo non aiuta a capire quello che succede qui, perché è una situazione molto più complessa: non sono le colonie francesi in Algeria, né quelle inglesi in India. Gli ebrei che sono arrivati 60, 80 o 100 anni fa qui non sono gli emissari di un impero immaginario, e non hanno un luogo in cui tornare.

È un tema che affronta anche nel suo ultimo racconto, in cui parla di una famiglia sfollata di Sderot che torna nel proprio appartamento e che si sforza di non guardare nella crepa che si è creata con questa guerra. Solo una bambina ha il coraggio di voler capire cosa sta succedendo. Perché?
Ho scelto il punto di vista di una bambina perché penso che nei bambini ci sia un senso della giustizia istintivo, a volte anche selvaggio, che pretende il rispetto delle regole, dei principi, del prossimo. Gli esuli descritti nel mio racconto sono gli israeliani sfollati dalle proprie case ma anche i profughi di Gaza, sono tutti coloro che sono stati colpiti da quest’inferno. Gli adulti spesso usano molte scuse e sovrastrutture per non comportarsi in modo etico, ma non si può dire che ci sia una giustizia per una popolazione che vive sotto occupazione e un’altra per la popolazione occupante.

Cosa pensa delle proteste e delle manifestazioni contro Netanyahu che si susseguono ogni settimana?
Ironicamente, il tentativo di Netanyahu di manomettere il sistema politico e giudiziario ci ha insegnato che non si può separare la concezione economica da quella politica, quella securitaria da quella nazionalista: fanno parte dello stesso continuum. Proprio durante l’anno della cosiddetta “riforma giudiziaria” sono stato coinvolto in un progetto presso l’Istituto Vanleer di Gerusalemme sul tema del post-capitalismo: ci siamo dati la libertà di immaginare una società post-nazionalista e post-capitalista in Medio Oriente. Un ordine sociale, culturale ed economico in cui il principio di cittadinanza prescinde dall’appartenenza nazionale o religiosa. In questo momento sembrerebbe un orizzonte utopico o addirittura messianico, ma l’immaginazione precorre sempre la realtà, e il ruolo della letteratura e dell’arte è imprescindibile.

Gli israeliani sono disillusi sulla possibilità di siglare una pace con la leadership palestinese?
Molti dicono di essere stati ingenui, credendo che la pace fosse possibile. Ma se gli si chiede, «Allora cosa è possibile? Qual è la soluzione?» non trovano una risposta. Tutta la concezione politica del centro-destra consiste nel creare un ristagno, sostenendo che in assenza di una soluzione non si può fare altro che tirare avanti, continuare a risolvere piccole o grandi crisi. Ed è una sensazione è molto diffusa. Ma allora cosa facciamo, accettiamo di vivere in guerra per sempre? Io questo non lo concepisco.

Cosa è cambiato in lei dopo lo shock del 7 ottobre?
Le mie opinioni non sono cambiate, così come la mia posizione riguardo alla questione palestinese. Credo nella convivenza in uno spazio multinazionale e multireligioso. Non sono ingenuo a riguardo. Si tratta di un processo lungo e pieno di sfide. Ciò che invece mi ha deluso sono le teorie politiche degli ultimi decenni. Il fatto che si traducano molto facilmente in dogmatismo omicida a destra e a sinistra dimostra che non sono più in grado di descrivere la realtà e tanto meno di apportarvi un miglioramento.