Manchester è United: come la squadra di calcio cittadina, che mercoledì sera si è aggiudicata il trofeo dell’Europa League in una vittoria che lenisce vagamente il dolore della ferita inflitta. Ieri mattina alle undici, come in tutte le altre maggiori città del Paese, il ronzio metropolitano si è fermato per un minuto di raccoglimento. Subito dopo, a dimostrare lo splendido vincolo che lega l’etica operaia e solidale degli abitanti di questa città a una cultura popolare, soprattutto musicale, tanto vibrante da porla al di sopra della stessa Londra, la folla ha prima timidamente, poi con sempre maggiore convinzione, intonato le strofe di Don’t look back in anger, il singolo storico degli Oasis, una delle tante fondamentali band cui la città ha dato i natali.

Ma se le persone comuni hanno saputo esprimere la forza confortante di una coesione sociale e culturale che finora non ha lasciato spazio alcuno a vendette e rappresaglie, lo stesso non può dirsi delle agenzie e istituzioni deputate alla loro protezione. Serpeggia nei giornali un malcelato malcontento per certi presunti errori di intelligence, che avrebbero permesso al ventiduenne autore dell’attentato, Salman Abedi, di sfuggire alle maglie dei servizi di sicurezza. Fonti governative hanno risposto alle critiche, ribattendo che l’MI5 sta seguendo cinquecento investigazioni simultaneamente e che l’attentatore faceva parte di un vasto gruppo di individui monitorati. Dubbi non dissipati certo dalle dichiarazioni vaghe della ministra dell’interno Rudd, secondo la quale l’uomo era stato sotto controllo «fino a un certo punto». Sia il Times che il Daily Telegraph insistono sul fatto che i servizi segreti fossero stati avvisati ripetutamente della radicalizzazione di Abedi da un suo parente e amici, e che sono state sprecate occasioni preziose per fermarlo. Intanto le indagini in corso sulla dinamica organizzativa confermano che avesse dei complici, oltre alla possibilità che possano esserci altre bombe. La soglia di rischio «imminente» di un altro attacco resta tale, e le città britanniche si stanno familiarizzando con la presenza di soldati armati fino ai denti.

C’è poi un attrito, ragguardevole, con l’alleato americano, denunciato ripetutamente da Rudd e dalla stessa premier May. Prima per la circolazione del nome dell’attentatore già a poche ore dalla strage da parte delle reti americane Abc e Nbc e dall’agenzia Reuters, e poi per quella di foto dettagliate di reperti sul luogo della tragedia, pubblicati inizialmente dal New York Times e che hanno comprensibilmente causato enorme sofferenza alle famiglie. Anche se non sono imputabili direttamente alla Casa Bianca, è facile associare l’accaduto alla faciloneria con cui l’amministrazione Trump condivide informazioni confidenziali con chiunque entri nelle grazie politiche del presidente americano. In ogni caso, i funzionari dell’antiterrorismo britannico sarebbero «furiosi» con la controparte d’oltreoceano e la premier May ha sollevato la questione con Trump nel loro incontro di ieri a Bruxelles, in occasione del summit della Nato. Lo stesso Trump aveva poco prima ordinato un’inchiesta. Per ora, Londra ha preso la decisione drastica di non condividere altra intelligence con Washington in una mossa del tutto stridente con la «special relationship» tra i due paesi.

Un’altra polemica riguarda la rapidità e l’efficienza dei soccorsi. Malgrado la tempestività dell’intervento di personale paramedico sul posto e il provvido equipaggiamento di ospedali e ambulanze dovuto alla preparazione al rischio di simili attacchi, i pompieri di Manchester, la cui caserma più vicina era a un chilometro scarso dall’Arena, non sono stati chiamati a intervenire che novanta minuti dopo l’attentato. Questo ha creato in molti di loro un senso di rabbia, impotenza e frustrazione, espresso in modo veemente in alcune dichiarazioni alla stampa. Andy Burnham, il neosindaco laburista della città, ha promesso un’inchiesta sull’accaduto, sottolineando come nel complesso, la risposta delle unità di soccorso sia stata esemplare.
Il bilancio delle vittime è di ventidue morti e centosedici feriti, 75 dei quali ancora ricoverati in ospedale. Ieri alcuni hanno ricevuto la visita della regina. Gli inquirenti hanno effettuato finora otto arresti, a parte la famiglia di Abedi, in stato di fermo a Tripoli, e sequestrato una serie di reperti definiti «significativi».