Stiamo assistendo al naufragio dei magistrati, travolti da una serie di sconcertanti vicende, e nessuna scialuppa di salvataggio è alle viste.

Ciò che si rischia non è la condanna di singoli comportamenti inaccettabili, ma la delegittimazione dell’intero ordine e la messa in discussione del principio costituzionale che assicura ai giudici l’autonomia e l’indipendenza «da ogni altro potere» (come scrive l’art. 104 della Costituzione), nonché la stessa possibilità di amministrare la giustizia «in nome del popolo» (come ci ricorda l’art. 101 della Costituzione).

Non sarà una commissione d’inchiesta a poter restituire l’onore perduto dai giudici, la cui causa risiede in disinvolte o illecite condotte, le quali si sono rilevate troppo diffuse rischiando di far passare l’idea del «così fan tutti».

D’altronde, non ci si può attendere nulla di buono dalla commissione parlamentare che è stata istituita, perché formata non tanto per indagare gli intrecci perversi che hanno riguardato alcuni magistrati, ma coinvolto anche diversi esponenti politici (il caso Palamara lo ha evidenziato), quanto per mettere sotto processo il sistema giudiziario nel suo complesso.

Neppure il referendum promosso dalla strana coppia Radicali-Lega contro la magistratura può essere una fonte di rigenerazione. Sono in molti a ritenere che sia giunto finalmente il tempo per «regolare i conti» tra una politica, all’attacco, e i giudici, in un momento di grave difficoltà di questi ultimi. Ma, la politica non appare il miglior giudice della magistratura.

NON SARANNO NEPPURE le auspicate riforme promosse dalla Ministra della giustizia e imposte dall’Europa sui tempi dei processi civili e penali a restituire credibilità ai giudici. Se si dovesse riuscire a rendere un po’ più efficiente l’inferno senza fine dei processi italiani avremmo ottenuto un bel risultato, senza perciò poter ridurre il tasso di diffidenza nei confronti del sistema esploso a seguito dei comportamenti individuali di troppi esponenti di rilievo del mondo dei giudici.

Non hanno certo contribuito a superare la crisi che sta travolgendo l’ordine della magistratura le risse – preferibilmente televisive – alle quali abbiamo assistito, attoniti, tra magistrati sino a ieri osannati per la probità dei comportamenti; né ha aiutato il fragoroso silenzio delle correnti, le quali pure sono state direttamente trascinate nella melma; così come insufficienti sono apparsi i balbettii dell’organo cui spetta il governo della magistratura. Tutti incapaci di reagire all’onda d’urto.

UNA SITUAZIONE DIFFICILE dalla quale solo i magistrati potranno tirarsi fuori dimostrando a se stessi, e al mondo, di non essere così come la cronaca li dipinge. Proprio le vituperate correnti dovrebbero prendere la parola per attestare, con riflessioni innovative e comportamenti di fatto conseguenti, di non essere solo strumenti di potere, ma espressione di culture della giurisdizione diverse e tutte legittime in un contesto di pluralismo associativo.

A loro spetta dimostrare che non risponda al vero l’immagine che li raffigura come strutture organizzate cui si aderisce unicamente per ottenere benefici personali. Non è sopportabile l’idea che ci si iscriva ad una corrente solo per una promozione o per aspettative di carriera. Se così fosse avrebbe buon gioco chi propone la loro cancellazione.

SE SI GUARDA ALLA STORIA della magistratura si possono trovare le vere ragioni che legittimano l’associazionismo e la sua articolazione interna. Basta pensare alla nobile vicenda che portò nell’ormai lontano 1964 alla fondazione di Magistratura Democratica. Un gruppo di magistrati che voleva mutare il modo di interpretare il ruolo dei giudici, lasciandosi alle spalle la vecchia cultura liberale – se non direttamente autoritaria-conservatrice – allora dominante per porre al centro del proprio operato la dimensione propriamente costituzionale.

Fu la volontà di innovare radicalmente, di rendere più democratica la visione del diritto, che mosse ad aprire lo scontro tra correnti; magistrati disposti a mettere a rischio anche le proprie carriere in nome di un’idea di giustizia. Fu proprio la nascita delle «correnti» a dare impulso al rinnovamento.

È lo sfocarsi delle ragioni della diversità che rende opaca la divisione tra gruppi di magistrati. Qual è lo scontro culturale che attraversa oggi le diverse anime della magistratura? C’è un solo modo per riaffermare l’utilità delle correnti come strumenti di progresso: ed è quello di rilanciare le ragioni delle differenze tra le varie componenti della magistratura. Si tratta di abbandonare le difese corporative e farsi motore del cambiamento, denunciando con forza i malanni della giustizia. Partendo dalla convinzione che ancora oggi, dentro e fuori la magistratura, non tutti la pensino allo stesso modo.

Diventa necessario chiarire quali sono le proposte che valgono a qualificare Magistratura Democratica rispetto ai colleghi di Magistratura Indipendente, ovvero alle altre componenti dell’Associazione Nazionale dei Magistrati.

È PER QUESTO CHE bisogna rivolgere uno stringente invito ai magistrati affinché volgano la propria attenzione non tanto al proprio interno (lasciando al Csm e al Ministero della giustizia, nelle rispettive competenze, organizzare i servizi e il funzionamento della giustizia; ad essi e non alle correnti spetta di occuparsi di nomine e provvedimenti disciplinari), quanto a quel che avviene al di fuori della corporazione, nel mondo che essi sono chiamati a giudicare.

Portare al centro della riflessione le ragioni della costituzione, del garantismo e del giusto processo, contrastando le perversioni del populismo giudiziario: sarebbe questo un ottimo modo per rivendicare poi piena autonomia dell’ordine e richiamare noi tutti alla necessità che la giustizia sia esercitata in nome del popolo.