Nove mesi fa, l’ambasciata italiana al Cairo tornava in pieno servizio. Da allora, ogni 14 del mese, c’interroghiamo e interroghiamo le istituzioni del nostro paese: il ritorno dell’ambasciatore in Egitto ha reso più vicina la verità sul sequestro, sulla sparizione forzata, sulla tortura e sull’uccisione di Giulio Regeni? E ha messo il nostro paese maggiormente in grado di intervenire sulla drammatica situazione dei diritti umani in Egitto?

Per rispondere a questa seconda domanda è sufficiente la cronologia degli eventi accaduti in queste ultime cinque settimane. Nella notte tra il 10 e l’11 maggio, Mohamed Lotfy, sua moglie Amal Fathy e il loro figlioletto subiscono un’irruzione in casa e sono portati in una stazione di polizia.

Lotfy e suo figlio, che hanno anche cittadinanza svizzera, vengono rilasciati ore dopo. Amal Fathy è ancora in carcere. L’appello per chiedere la sua scarcerazione è qui: https://www.amnesty.it/appelli/annullare-le-accuse-amal-fathy/

È sempre antipatico parlare di un’attivista come «la moglie di…». Ma in questo caso, è evidente che Fathy è in prigione per punire il marito, direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, Ong più volte perseguitata, insieme ai suoi attivisti (tra i quali Ahmad Abdallah, 120 giorni in prigione nel 2016) per aver deciso di fornire assistenza legale alla famiglia Regeni.

Il 16 maggio viene arrestato, con l’accusa di «diffusione di notizie false», l’attivista Shadi Ghazali, uno dei leader della rivoluzione del 2011. Il 22 maggio agli arresti finisce Haitham Mohamadein, sindacalista rivoluzionario. Il giorno dopo è la volta di Wael Abbas, blogger e giornalista, famoso per le sue denunce contro le violenze della polizia. Il 1° giugno termina, dopo 70 udienze, il processo nei confronti del fotogiornalista Mahmoud Abu Zeid, arrestato nell’agosto 2013 per aver scattato foto durante il massacro dei sit-in della Fratellanza musulmana al Cairo (oltre 800 morti): il verdetto è atteso il 30 giugno e potrebbe essere quello estremo della pena di morte. Il 6 giugno finisce in carcere Waleed Salim al-Shobakky, ricercatore statunitense, accusato di «terrorismo».

Quanto alla prima domanda, la risposta è che la verità non è più vicina. A meno che non si vogliano definire «passi avanti decisivi» la consegna di centinaia di pagine inscatolate in ordine casuale che dovrebbero contenere gli atti delle indagini condotte dalle autorità inquirenti del Cairo dal 3 febbraio 2016. O la messa a disposizione, 28 mesi dopo, delle immagini (o di quel che ne resta) riprese dalle telecamere a circuito chiuso lungo il percorso compiuto a piedi da Giulio Regeni la sera del 25 gennaio di due anni fa.

La società civile italiana, nel frattempo, non molla e rilancia. Nell’ultimo mese altri Comuni italiani hanno aderito alla campagna “Verità per Giulio Regeni” e il 22 sarà la volta di Lucca e Capannori, rispettivamente il 254° e il 255°. Il numero delle università aderenti è salito a 39: il 21 maggio quella di Parma ha intitolato a Giulio l’aula studi e tra gli studenti in città è già diventata popolare l’espressione «Ci si vede alla Regeni!». Il numero delle persone che hanno aderito al digiuno a staffetta promosso dai familiari di Giulio per sollecitare il rilascio di Amal Fathy ha superato il migliaio e dopo un mese non accenna a diminuire.

Quanto alle rinnovate istituzioni politiche italiane, dal governo, quasi, non pervengono ancora notizie. Non è chiaro quale sarà, se ve ne sarà uno, il ruolo della difesa e della promozione dei diritti umani nella politica estera della Farnesina né tanto meno è noto se lo slogan «prima gli italiani» varrà anche per quelli assassinati all’estero.

Da un governo all’altro, la valutazione dell’Egitto sembra pressoché la stessa: «Partner ineludibile» (Alfano dixit) o «paese troppo importante perché l’Italia non abbia relazioni stabili», ha detto Salvini, 48 ore fa a Otto e mezzo: parole quest’ultime che, essendo però le prime di un rappresentante del governo su Giulio Regeni, sono un’aggravante, puzzano di realpolitik e davvero non lasciano presagire nulla di buono.

La speranza è che un uomo dell’università qual è il presidente del Consiglio Giuseppe Conte abbia un riguardo umano specifico per il destino orribile (non casuale, ma frutto di un delitto di stato) di un uomo che dell’università aveva fatto il suo ambiente e luogo di ricerca.

Nel frattempo, parole importanti sono state espresse dal presidente della Camera, Roberto Fico, che ho incontrato venerdì 8 insieme a una delegazione di Amnesty International Italia. Fico ha sottolineato come non sia il tempo della memoria bensì quello della ricerca di una verità da perseguire a ogni costo, sostanziale, forte e definitiva. Parole incoraggianti. Ci dicono che, almeno per alcuni rappresentanti delle istituzioni (e qui stiamo parlando della terza carica dello stato), Giulio fa ancora parte dell’interesse nazionale.

*Portavoce Amnesty International Italia