La popolarità che il Giappone ha acquistato in Italia e nel mondo nel corso degli ultimi decenni è un fenomeno di difficile interpretazione e io stesso, quando mi viene chiesto di spiegarlo, mi trovo in difficoltà. Più semplice è elencare i modi in cui questa passione si manifesta: il successo dei manga e dei cartoni animati, il numero crescente di studenti che all’università scelgono il giapponese, il boom del turismo, la diffusione della cucina giapponese. Avendo cominciato a occuparmi di Giappone in un’epoca in cui questo paese e la sua cultura erano avvolti in una nebbia impregnata di esotismo e indifferenza, sono particolarmente incuriosito da questa passione e mi sforzo di decifrarla.

Una delle mie ipotesi è che la principale fonte di attrazione non sia nei prodotti di consumo che il Giappone esporta ma nell’immagine di stile che esso emana, e che nessun altro paese oggi sa esprimere in eguale misura, uno stile fatto di estetica ma anche di etica, in cui il rigore delle forme appare in armonia con la compostezza negli atteggiamenti. Ma forse più che di stile si dovrebbe parlare di sensibilità. Si è diffusa la percezione che il Giappone possa evocare un modo alternativo di sentire e porsi nei confronti dello spazio, una diversa grammatica delle emozioni, mediata da canoni meno usurati dalla nostra esperienza. È questa sensibilità alternativa ad attrarre i cultori dei manga, i bambini rapiti dai cartoni animati di Miyazaki e Takahata, ma anche i lettori di bestseller banali e consolatori come Finché il caffè è caldo, o delle complesse macchine narrative di Murakami?

Nagori La nostalgia della stagione che ci ha appena lasciato, di Ryoko Sekiguchi, tradotto da Giampiero Massano per Einaudi (pp. 104, € 15,00) può aiutarci a rispondere: questo piccolo, prezioso libro è un esempio di tale sensibilità, filtrata dall’adesione della scrittrice alla lingua francese, da lei scelta come principale mezzo di espressione. Sekiguchi è una delle più note rappresentanti della exofonia, la pratica della scrittura in una lingua diversa da quella materna, oggi così internazionalmente diffusa da potersi definire una tendenza globale. Anche il Giappone presenta numerosi casi di autori e autrici che hanno scelto di esprimersi in una lingua straniera. Esempi di exofonia sono Yoko Tawada, grande scrittrice, studiatissima in Italia in ambito accademico ma piuttosto trascurata dall’editoria, che si divide tra il giapponese e il tedesco, e Aki Shimazaki e Akira Mizubayashi, i quali hanno trovato la loro chiave espressiva ideale nel francese.

La scelta del francese

Sekiguchi si è servita del francese non per una fuga dal suo paese d’origine, che ritorna costantemente nei suoi libri, in forma di ricordi, cibi e sapori – la scrittrice è anche raffinata gourmet – ma per il bisogno di filtrare e distillare sensibilità ed esperienza oggettivizzandole. Una materia emotiva come la nostalgia, intimamente votata alla ricerca, eternamente frustrata, del tempo perduto, si raffredda fino a rarefarsi. Le sue parole scorrono goccia a goccia, come cera in un calco che lentamente si solidifica e prende forma, offrendoci una visione del Giappone quintessenziale ma profondamente vera e lontana da ogni versione addomesticata e turistica. Si avverte quella tensione, da sempre caratteristica della poesia giapponese, tra l’ineffabile e la scrittura, lo sforzo per trascinare l’inesprimibile nel territorio della parola. «La sensibilità nasce dalle parole: non potremmo percepire ciò che non ha nome», scrive Sekiguchi. E le parole per lei sono più concrete delle cose che rappresentano. Le stagioni, tema principale del libro, non sono necessariamente legate al vissuto ma possono anche evocare climi o momenti che non appartengono all’esperienza, come le foglie secche o la neve, mai viste con i propri occhi da bambini cresciuti in climi caldi, sui quali questi fenomeni atmosferici esercitano un fascino irresistibile.

I nomi, quindi, rivaleggiano in consistenza e forza con la stessa realtà che hanno il compito di indicare. I nomi non come involucri delle cose ma come strumento attraverso il quale il vivere diventa comunicabile ed esperibile. In giapponese le stagioni godono di un ricco assortimento di termini, e anche la corrispondenza tra le stagioni e gli alimenti naturalmente produce parole. Sekiguchi si concentra su tre termini, usati per collocare un certo frutto, o ortaggio, nell’arco di tempo in cui viene prodotto e consumato. Come il trio di joh-ha-kyu nel teatro noh rappresenta la scansione del tempo, il ritmo della musica e l’intensità del dramma, così, nel rapporto tra stagione e alimenti, le parole hashiri, sakari, nagori tracciano l’intera parabola di un alimento. Hashiri è la primizia che alcuni privilegiati potranno gustare precocemente, mentre per gli altri è una promessa che si realizzerà nel sakari, la pienezza della stagione.

Nagori invece è il frutto di una stagione giunta al declino, il sapore di qualcosa che ci ha già lasciato o sta per scomparire. È l’indulgere in tale languore il sentimento che pervade questo libro, il desiderio di qualcosa che vediamo svanire all’orizzonte e che potremmo, se la vita ci abbandonasse, non assaporare una seconda volta.

Dolci rimpianti

Nagori è una parola bellissima, non intraducibile ma della quale è difficile restituire degnamente l’atmosfera, sia in francese che in italiano. «Vestigia», «tracce», «resti» ne sono solo pallide approssimazioni. Sekiguchi la conserva in originale e la elegge a titolo, ammantando l’intero libro dell’ombra di qualcosa che è passato troppo presto, e lascia una sensazione di perdita ma non di svuotamento, piuttosto di dolce rimpianto, come il «parting is such sweet sorrow» di Shakespeare. Cosa differenzia il nagori dalla sensazione a cui diamo il nome di nostalgia? Un minore grado di parentela con il reale, e una venatura di rassegnazione che richiama alla memoria lo akirame, rinuncia, uno degli attributi dell’iki, il concetto estetico teorizzato dal filosofo Kuki Shuzo nel suo famoso trattato La struttura dell’iki.

Questo discorso così squisitamente giapponese sulle stagioni e sulla poesia può sembrare confinato in un ambito di sensibilità eccessiva, avulsa dall’affannoso procedere della storia, ma Sekiguchi lo collega anche alle vicende politiche, alle manifestazioni di violenza della natura e dell’uomo, e persino a tragedie come la bomba atomica, traendone profonde riflessioni sull’atteggiamento dei giapponesi che, per avere troppo sviluppato la sensibilità nei confronti della temporalità ciclica, hanno finito col disattivare le implicazioni politiche di certi eventi e sviluppare «una carenza di coscienza storica». Sekiguchi limita queste considerazioni a un breve capitolo, che tuttavia lascia intravedere la densità problematica su cui si basa questa sua meditazione sul tempo e la bellezza.