Bader mette le lancette sulle quattro, l’ora in cui suo papà attacca in panetteria. Malak le sposta all’una, quando sua mamma inizia il corso di italiano. Mohammed alle dieci, il momento della preghiera. Nicolò alle tre: nome italiano e famiglia marocchina, sua madre, sordomuta con altri due figli, a quell’ora fa le pulizie. Il padre non trova lavoro perché a Torino le fabbriche stanno chiudendo. Dopo lo sfratto sono finiti a vivere in un residence. Andrea ha origini cinesi e un’incredibile passione per gli ingranaggi: passa molto tempo con la sorella perché i genitori sono occupati in negozio. Joyce invece vive in un’ex scuola occupata. Suo papà ha perso il posto da operaio, ora prova a vivere cantando. Sua mamma dice che in Germania e Francia si sta meglio: lì ci sono poliziotti neri, autisti neri, impiegati neri. In Italia no. Vivono tutti nell’attesa di qualcosa.

«Waiting» è il titolo del nuovo film del regista Stefano Di Polito, vincitore del premio del pubblico al 18esimo gLocal Film Festival di Torino. Realizzato con il sostegno del Piemonte Doc Film Fund e prodotto da Silvia Innocenzi, Mimmo Calopresti e Giovanni Saulini per Magda Film, il documentario racconta l’ansia, la paura, l’emozione di un gruppo di bambini alla vigilia dello spettacolo che stanno allestendo a scuola. Accanto, incombono le storie delle loro famiglie, quasi tutte straniere, nel quartiere di Porta Palazzo/Aurora, da sempre simbolo dell’immigrazione e dell’integrazione a Torino.

AURORA, UN GRANDE PASSATO industriale e un presente rabbioso e precario, è centro per la sua geografia ma periferia per la sua connotazione urbana e etnica: con la vicina Barriera di Milano, qui il 30% dei residenti è straniero. Bassa scolarizzazione, ancora più scarse prospettive sociali e lavorative. Pezzi di strada abbandonati al degrado, dove la legge sembra sospesa. Ma anche le storiche case di ringhiera, con un’umanità varia, autentica. Lo stesso pezzo di città del Balon, il mercato del libero scambio che ora vogliono spostare, lo stesso dell’ex Asilo sgomberato con un’azione fin troppo muscolare, lo stesso che a breve si trasformerà per lasciare spazio a un grande, discutibile, esperimento di gentrificazione.

«WAITING» È UNA DELICATA favola che riesce a fondere insieme la dolcezza e l’innocenza dell’essere bambini e la durezza di una realtà drammatica, in cui c’è poco tempo per perdere tempo. Accanto alle emozioni dei piccoli, che il tanto dibattuto ius soli già lo incarnano di fatto, il film mostra le attese delle famiglie. Esistenze in bilico. La favola che i bambini devono portare in scena racconta di una notte in cui un fulmine ha colpito l’orologio sulla torretta di Porta Palazzo, bloccandolo: da allora nel mercato più multietnico d’Italia tutti vivono in attesa che qualcuno faccia ripartire il tempo.

È il racconto di un tempo che si è fermato, in cui siamo rimasti tutti intrappolati. Un presente incerto e durissimo, fragile e disincantato. Un tempo feroce, che lascia segni indelebili sui tanti migranti che vivono nel quartiere. Ma mai senza speranza. Come per Azdì, nato a Torino, madre pugliese e padre marocchino. Il suo primo pregiudizio ce l’ha avuto in casa, da suo nonno, che lo chiamava «Azinin»: gli dava dell’asino, ma lui si metteva a ridere. Mamadou invece ha ventisei anni e una laurea in Geografia: è scappato dalla Guinea per l’ebola. È scampato per miracolo ai lager libici, è arrivato in Italia per sopravvivere. Un altro ragazzo, gambiano, ha il volto coperto da una maschera. A Tripoli gli hanno chiesto dove volesse andare, lui ha risposto «non lo so». L’hanno stipato dentro a un barcone. In centodieci sono rimasti quattro giorni in mare, l’acqua che lentamente si insinuava nelle crepe, gli odori nauseabondi che si attaccavano ai vestiti. Non ce l’hanno fatta in settanta. «Ho pensato fosse meglio morire» racconta.

INQUIETANTI MOSTRI del tempo mascherati si rincorrono nel film, ricordandoci che i migranti sono invisibili, sospesi in una dimensione eterea, intrappolati in una gabbia di pregiudizi che la narrazione tossica di questi tempi non fa che alimentare. Ecco allora che arriva un canto di liberazione, un ballo sopra a un tetto, un «tanti auguri» intonato in mille lingue, una preghiera comune a scuola in cui il bimbo cinese si piega a terra pronunciando «Allah Akbar», mentre la compagna rumena si fa il segno della croce. La Torino multietnica canta, e danza. Sogna e piange. Cresce, tra le mille contraddizioni. «Nella favola sono i bambini a spiegarci cosa si può fare per far ripartire il tempo, per interrompere l’attesa» racconta al manifesto il regista Stefano Di Polito, che dentro a quelle storie, scoperte per caso, è riuscito a entrarci facilmente, perché l’esigenza di raccontare, dice, «è estrema».

Oggi i «nuovi italiani» marceranno nella capitale per rilanciare il tema dello ius soli. Oggi in Italia un minore su otto vive in condizioni di povertà assoluta, mentre 825mila bambini nati nel nostro paese attendono la cittadinanza italiana. A Torino su 132mila minori iscritti all’anagrafe, 28mila sono figli di famiglie immigrate: uno su quattro è povero, il 15 per cento povero assoluto. Secondo i dati Unicef, lo scorso anno sono arrivati via mare in Italia 3.536 minorenni stranieri non accompagnati. Oggi in totale sono 10.787. Gli irreperibili, ovvero quei minorenni di cui si sono perse le tracce, sono 5.229.

UNA DELLE POCHE OASI di salvezza è la scuola. Qui il tempo non aspetta. Le scuole multiculturali come la Parini e la Aurora che hanno preso parte al film, dove la percentuale di figli di immigrati raggiunge il 95 per cento, «dovrebbero essere protette, sostenute – spiega il regista –. Sono un laboratorio di pace, grazie a insegnanti eroi, che non possono essere lasciati soli». Dopo aver visto il documentario, due maestre che avevano chiesto il trasferimento hanno deciso di restare. Accanto, c’è la società civile. «Ci siamo noi, che dobbiamo fare leva sulle istituzioni affinché investano sui minori» conclude Di Polito. I bambini permettono di umanizzare il problema. La favola serve a provocare una risposta alla domanda «a che punto siamo arrivati?». Non si può più stare zitti. Oggi, in strada, per questo.