In Turchia il numero delle vittime ha superato le 20mila. Oltre alla potenza dei terremoti del 6 febbraio, la struttura precaria degli edifici ma anche il mancato intervento dello Stato peggiorano la situazione. Davanti a questo scenario la reazione del regime è la solita: minacce, censura e uso di strumenti antidemocratici.

Il ministro del tesoro, Nureddin Nebati, il 7 febbraio ha parlato a Urfa: «Tutta la situazione è sotto controllo. L’unico problema sono le notizie false diffuse sui social media». Invece proprio grazie ai social il paese scopriva che numerose località devastate non erano ancora state raggiunte dai soccorsi.

IL 9 FEBBRAIO anche il ministro della giustizia, Bekir Bozdag, in una conferenza stampa ha rilasciato dichiarazioni simili: «Sui social media e presso altri mezzi di comunicazione ci sono persone che diffondono notizie provocatorie che preoccupano i nostri cittadini». Nel mirino del governo non ci sono solo i social media o quelli tradizionali ma tutte le persone che criticano il suo operato.

Questa posizione già il 7 febbraio era stata resa pubblica dal presidente Erdogan in un video messaggio: «Stiamo osservando coloro che producono notizie false e incitano all’odio la popolazione. Non oggi ma quando arriverà il momento faremo i conti con queste persone. I procuratori stanno già lavorando per identificarle».

Esattamente com’era successo nel 2014 dopo l’esplosione della miniera a Soma che causò la morte di 301 persone, l’attentato davanti alla stazione centrale di Ankara nel 2015 dove sono morte 97 persone, l’attentato di Suruç del 2015 che ha portato via 34 anime e il massacro di Roboski del 2011 dove sono stati assassinati 34 cittadini. Dopo tutti questi casi, e tanti altri, sono sempre emerse prove che evidenziavano il coinvolgimento diretto dello Stato o la sua negligenza.

La decisione immediata del governo e della magistratura è stata denunciare e arrestare i giornalisti che lavoravano su questi casi e applicare l’obbligo di silenzio stampa. Anche oggi il tentativo di privare i cittadini dei mezzi di comunicazione e informazione è tra gli obiettivi del governo.

POCHE ORE dopo i terremoti, Ankara ha deciso di restringere la banda rendendo difficile l’accesso ai social: Twitter, Instagram e Tiktok. La notizia è stata confermata con un breve comunicato dal ministro dell’Infrastruttura, Omer Fatih Sayan: «Abbiamo ricordato a Twitter che deve collaborare con il governo turco per lottare contro la disinformazione».

Oltre all’obbligo di silenzio stampa, ormai da qualche anno, il governo riduce la velocità e la qualità di accesso alla rete o a certi mezzi di comunicazione di massa in Turchia. Prima con una legge ad hoc nel 2014, poi nel 2020 e poi nel 2022, il governo ha preso le redini nelle sue mani per controllare internet, applicare la censura in diversi modi e con diversi strumenti. Tutto è stato fatto, sempre, con la scusa della «lotta alla disinformazione».

Esattamente come furono essenziali i social in Turchia durante la rivolta del Parco Gezi nel 2013, nelle inchieste anti-corruzione del 2014 e nelle tornate elettorali del 2015 e 2019, anche oggi sono mezzi essenziali e privare i cittadini di questi è un enorme errore, per non dire altro.

OGGI NELLE ZONE colpite dal terremoto la gente diffonde le immagini per dimostrare il livello del disastro, crea mappe per identificare le zone sicure dove rifugiarsi e costruisce reti informali di solidarietà per raccogliere i beni di prima necessità. I social, soprattutto nei primi giorni del disastro, sono stati usati dalle persone rimaste sotto le macerie per lanciare messaggi d’aiuto. Infine numerose ong utilizzano i social in Turchia per raccogliere donazioni e dimostrare il loro operato, realtà che hanno fatto ciò che lo Stato non è stato in grado di fare.

In questi giorni, due giornalisti Enver Aysever e Merdan Yanardag hanno criticato la mancata reazione del governo e sono stati denunciati. Il politologo Özgün Emre Koç è stato messo in detenzione provvisoria per i suoi messaggi sui social media, come il giornalista Mehmet Güles dell’agenzia Mezopotamya mentre documentava i danni dei terremoti a Diyarbakir. Secondo il ministero dell’interno, finora sono state denunciate 302 persone, di cui 37 prese in detenzione provvisoria e 10 arrestate. L’accusa è «divulgare notizie false e incitare la popolazione all’odio».

Infine, il 9 febbraio, nonostante il no delle opposizioni, con i voti della coalizione del governo il parlamento ha dichiarato per tre mesi lo stato d’emergenza nelle zone colpite. «Lo facciamo per lottare contro coloro che vogliono approfittare dell’occasione a livello politico e economico. Avremo gli strumenti necessari a disposizione per intervenire in modo adeguato e straordinario», le parole di Erdogan che giustificano la decisione che si basa sull’articolo 119 della Costituzione.

LE OPPOSIZIONI sono di parere diverso: che l’obiettivo sia limitare i diritti principali dei cittadini e l’operato delle amministrazioni locali gestite dai partiti d’opposizione. La decisione dello stato d’emergenza assume un valore importante soprattutto tenendo in considerazione che il 14 maggio, pochi giorni dopo la fine dei tre mesi, dovrebbero svolgersi le elezioni presidenziali e politiche.

I partiti d’opposizione, che hanno votato contro la proposta, temono che attraverso questo strumento antidemocratico il governo possa condurre una campagna elettorale ricca di censura esattamente come nel 2017 per il referendum costituzionale, anch’esso durante lo stato d’emergenza.