Si può dire che il voto abbia registrato con forza la presenza nel nostro paese di vari populismi.

Il primo,decisamente sconfitto,è il populismo dall’alto, quello del Pd renziano: una forma di im-mediatezza che intende far passare e insieme coprire politiche e provvedimenti di dura governance neoliberista.

Si sono contrapposti al primo,da un lato,il populismo etnico e razzista della Lega di Salvini, dall’altro il populismo digitale del Movimento 5 Stelle,in cui la rabbia sociale e la protesta hanno preso la forma di una euforica auto-identificazione nei diritti di una nuova cittadinanza che si fa visibile e reclama.

Come è stato osservato,si tratta dell’utopia della democrazia e della società digitale, a cui si accompagna strettamente l’altra utopia della «trasformazione globale del sistema politico» (Loris Caruso, il manifesto 13 marzo).

Viene da chiedersi: e il sistema capitalistico nazionale-internazionale del XXI secolo? Esso è fuori dal campo d’azione del populismo grillino, il quale si proclama di segno adattativo, capace cioè di comprendere centro, destra, sinistra (e le relative domande e istanze), dal momento che non ha un sistema economico-sociale con cui fare i conti (non dico contro cui combattere).

Il rischio che si intravede, anche nei commenti post-elettorali, è che si possa affermare e insediare stabilmente (ben al di là dei momenti elettorali) una idea della politica come lotta per l’apparenza: essa in quanto tale espungerebbe da sé il piano della critica della società, sostituito dal piano del confronto tra insorgenze e nodi discorsivi, narrativi, comunicativi, che costituirebbero la nuova tessitura della società e attenderebbero di essere trasformati in una sintesi “vincente”.

Credo che sostanzialmente si collochi in connessione con quanto sopra la stessa cosiddetta “lotta alla povertà e alle disuguaglianze”, che, nella sua formidabile e irenica pronunzia post-novecentesca,finisce col confluire nel variegato sistema del workfare neoliberale, pur sempre incentrato sul ricatto dello sfruttamento. (In antitesi a questo orizzonte, andrebbe letto il bel libro di Loris Campetti, Ma come fanno gli operai, che rivolge lo sguardo alla precarietà, alla solitudine, allo sfruttamento di quella che fu la classe operaia e che ora è «una classe fantasma»).

Nell’articolo citato, Caruso scrive anche che «la frattura vecchio/nuovo vale attualmente dieci volte quella tra destra e sinistra» e che bisogna incarnare questo principio per “vincere”.

Ma, a ben vedere, una volta ‘costruito’ su queste basi il popolo, ciò che gli si profila non è il cielo della politica, ma quello della tecnica: ed è lì che tutte le scelte propriamente non sono né di destra né di sinistra, ma si configurano come passaggi obbligati di una governance indefettibile. Su un altro piano, si potrebbe aggiungere che, nell’infittirsi sempre più stringente dell’egemonia neoliberista, le varie prospettive della cosiddetta sinistra di governo hanno perso ormai irreversibilmente le loro illusioni ‘riformistiche’ e si rivelano inchiodate alla logica pervasiva della governance, del cosiddetto “pilota automatico” e, più in generale, del «realismo capitalista» (Mark Fisher).

Stando così le cose, su quali basi può e deve poggiare la costruzione di una sinistra di alternativa, si potrebbe aggiungere antiliberista e anticapitalista? Se si guarda non al risultato elettorale in sé, assai gramo, ma al valore politico dell’esperienza di una piccola soggettività politica che è stata in campo, si può ricavare, credo, una considerazione di fondo: che è venuta meno l’illusione di una qualsivoglia costruzione politicistica dell’unità della sinistra e insieme che si profila con nettezza il tempo “costruttivo” di una opposizione sociale, politica, culturale a tutto campo e di lunga lena, che lavori contro la disgregazione e la passivizzazione prodotte dal neoliberismo e per la formazione molecolare di un nuovo blocco storico.