«La moneta cattiva scaccia quella buona», così recita la cosiddetta legge di Gresham: vale anche per la politica. E da qui possiamo partire per cercare di capire cosa mai possa voler dire «riformare il Pd», dopo i recenti episodi di malaffare che hanno coinvolto alcuni suoi esponenti locali.

È possibile parlarne concretamente e seriamente, senza le consuete chiacchiere a vuoto, fatte di luoghi comuni? Se la questione si riducesse solo ai fenomeni di rilevanza penale, la nomina di qualche commissario o alcune espulsioni potrebbero risolvere la faccenda. Ma la teoria delle mele marce non funziona: l’interrogativo di fondo riguarda le radici strutturali di una «cattiva» politica, il modo di essere ordinario del partito, le ragioni che lo rendono permeabile alle scorrerie di un ceto politico poco raccomandabile. Non basta nemmeno invocare la «piazza pulita» che la segreteria dovrebbe fare, per cacciare i cacicchi e i loro manutengoli. Discorsi che lasciano il tempo che trovano, va detto: se anche questi fossero cacciati, ne nascerebbero altri, come la gramigna. È il terreno che deve essere dissodato e risanato, per impedire che ricresca.

Il vero tema è capire come mai il Pd, in gran parte, con le dovute eccezioni, nelle sue espressioni locali e regionali, è organizzato come un reticolo di potentati e di notabilati, che vivono di una rendita di posizione legata all’occupazione delle cariche elettive (anche laddove il partito è all’opposizione). Il cosiddetto pluralismo interno non è legato ad una dialettica di posizioni politiche, ma alla ricerca di un equilibrio tra gruppi di potere spesso ferocemente concorrenti (con tutto ciò che ne può derivare).

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Da dove nasce tutto questo? Dalle origini: dall’idea di costruire un partito in cui si combinava un modello plebiscitario (il segretario eletto dal «popolo delle primarie»: espressione tipicamente populista) e un modello di balcanizzazione delle strutture periferiche. Non è vero che gli iscritti non contino nel Pd: non contano nella scelta del segretario e soprattutto nella definizione della linea politica; contano moltissimo invece quando si tratta di eleggere gli organismi dirigenti locali (dove si decidono le candidature). E qui entra in gioco la legge di Gresham: i «cattivi» iscritti tendono a scacciare quelli «buoni».

Fuor di metafora: con il passare degli anni, sono stati sempre meno gli incentivi ad un’adesione motivata sul piano ideale e politico, e sempre più forti invece quelli legati ad una pratica di potere o comunque alle reti di relazioni personali, e al «controllo» dei circoli, in molti casi trasformati nel quartier generale di un capocorrente (come accertò, già dieci anni fa, l’indagine di Fabrizio Barca sul Pd romano). Da qui germinano i cosiddetti signori delle tessere: ma questi signori hanno avuto la vita facile, in tutti questi anni, per il modo stesso con cui è stata concepita la pratica del tesseramento.

Nulla impedisce oggi, in termini statutari, che chiunque possa iscriversi senza alcun controllo e soprattutto, nulla ha impedito che, in molti casi, si sviluppasse il fenomeno dei pacchetti delle tessere: un collettore che ne «compra» in blocco un certo numero, in bianco, e poi le distribuisce ai suoi amici. Il tutto ancor più facilitato dall’idea, persino teorizzata a suo tempo, che il costo delle tessere debba essere «fisso e basso» (come nella pubblicità di una nota catena di supermercati), con conseguenti ricadute negative anche sulle casse del partito. A catena, da tutto ciò, nasce l’ipertrofia del partito degli eletti: altro che apparato di funzionari e burocrati (magari ce ne fossero, verrebbe da dire), a lavorare sono gli staff pagati dalle istituzioni.

Che fare, dunque? Tantissime cose, ovviamente, che dovrebbero trovare la sanzione in un nuovo statuto. Qui se ne possono indicare solo alcune. Intanto, bisogna partire dall’alto, tornando a fare dei veri congressi ed eleggendo organismi (non pletorici, come sono quelli attuali) che siano rappresentativi degli orientamenti politici del partito (costruire delle vere e sane correnti). Congressi fatti sulla base di documenti politici e programmatici, discussi, emendati e votati. E poi, altre misure concrete: ad esempio, è davvero così vintage immaginare che la tessera debba essere consegnata solo individualmente, concordando una quota variabile; o che delle commissioni di circolo vaglino preventivamente le domande di iscrizione? Solo se un partito ha una propria vita collettiva, i fenomeni degenerativi possono essere fermati in tempo.

Tutto ciò non si fa dall’oggi al domani: ma occorre avviare subito la discussione (puntando ad una vera conferenza di organizzazione). È un processo complesso di riconversione, che però deve partire oggi. Più passa il tempo, più appare evidente, per dirla con il Manzoni, che questo partito «non s’aveva proprio da fare»: mal concepito, e peggio vissuto (anzi, deperito). Ma ora c’è, e pensare di disfarsene è difficile, oltre che ingiusto, per le molte energie positive che ancora ci sono al suo interno. Per provare a salvarlo, però, i tempi stringono.