Il Patto di stabilità e crescita ha già nel nome i suoi obiettivi principali: stabilità finanziaria e crescita economica. Per stabilità finanziaria s’intende l’equilibrio dei conti pubblici, una precondizione della crescita. Ma quando si ragiona su come tenere a bada deficit e debiti pubblici, la risposta principale è «attraverso la crescita economica». Come dire che per avere stabilità, bisogna avere crescita, ma per avere crescita serve stabilità. Sembra un discorso tautologico, un corto circuito logico.

Eppure in Italia, come in tanti altri paesi, la crescita è intesa come l’unica prospettiva per risolvere i problemi economici, dall’indebitamento alle disuguaglianze, passando per il disastro ecologico.

L’elemento eccessivamente sottaciuto è che in questi ultimi anni la crescita non è data (tanto meno la stabilità finanziaria pubblica e privata). Gli anni buoni sono sempre stati a ridosso di crisi, espressione di qualche effetto rimbalzo. Magri risultati al cospetto di un interventismo monetario senza precedenti, che ha drogato, e dunque alterato, i risultati economici. E poi, si può parlare di vera crescita quando il deficit statale è in percentuale doppia o tripla rispetto all’incremento del Pil?

L’Italia, insieme al Giappone, viene da un trentennio di stagnazione senza paragoni. Va evidenziato, però, che anche nei principali paesi Ocse i ritmi di crescita, perlomeno dal 2007, somigliano sempre più a un prefisso telefonico. La tendenza al rallentamento è storica per economie mature e viene progressivamente confermata dopo il «trentennio glorioso» del dopoguerra, come se il capitalismo fosse sempre meno capace di garantire un’espansione economica reale.

Anche le eccezioni, i modelli positivi, frenano radicalmente. Prendiamo la Germania, spesso ritenuta un modello di competitività. Un paese con un’economia robusta, dedita alle esportazioni, con un baricentro spostato sul versante produttivo, con un apparato industriale efficiente e posizionato principalmente su beni strumentali a elevato valore aggiunto. La Bundesbank sostiene che l’economia tedesca nel 2023 piomberà in una recessione tecnica con una contrazione del Pil pari allo 0,1% e con gli ultimi due trimestri dell’anno negativi.

Sono molteplici le spiegazioni degli affanni teutonici. La crisi energetica ha reso difficile la vita all’industria, l’aumento del costo del denaro ha inibito gli investimenti, le esportazioni sono messe a dura prova dalla crisi geopolitica, i consumi interni a malapena reggono. Tutti problemi che non sono certo estranei a un paese come l’Italia. Banca d’Italia ha previsto nel 2023 una crescita nostrana dello 0,6%. Percentuale superiore a quella di Berlino di qualche punto decimale, tanto da far gioire qualcuno a Roma come se gli affanni italiani non fossero collegati a quelli tedeschi, come se non facessimo parte della loro catena di subforniture. Con l’aggravante per il Belpaese di un debito pubblico decisamente più pesante. Tant’è che l’esperto di finanza pubblica Massimo Bordignon su Lavoce.info ha sostenuto che con le nuove regole e con un costo annuo del debito pari a 4-4,5% del Pil l’Italia dovrebbe realizzare un avanzo primario attorno al 2,5-3% del Pil. Nel Documento di Economia e Finanza il governo ha previsto un ritorno al saldo primario dello 0,5% nel 2024. Dopo averne messo in conto uno negativo dello 0,8% per l’anno in corso.

Insomma numeri lontani dalle richieste europee per risanare i conti pubblici e che denotano sofferenze e difficoltà della fase economica attuale. Se la stabilità dovrebbe sostenere la crescita, e la crescita la stabilità, allora almeno nell’ultimo ventennio non si è ottenuta né l’una né l’altra. La crescita è asfittica, i debiti pubblici in costante espansione: «l’anomalia italiana» degli anni Novanta si è fatta sempre più globale. Per due decenni, mentre il nostro paese boccheggiava, in molti dicevano «bisogna fare come la Germania». E ora? Non sarà il caso di cambiare ricetta?