Tre anni fa, in piena campagna elettorale israeliana, le principali organizzazioni della comunità ebraica statunitense alzarono la paletta rossa davanti al premier Benyamin Netanyahu. Interrompi i contatti con Itamar Ben Gvir, gli dissero, perché il leader del partito di estrema destra Potere ebraico (in Europa sarebbe descritto come neofascista) non può far parte del governo. I suoi proclami colmi razzismo e le sue tante «iniziative», talvolta violente, contro i palestinesi in Israele e nei Territori occupati, lo rendevano «non adatto» a un incarico ministeriale.

Tre anni dopo, con l’ennesima campagna elettorale in corso, Ben Gvir è stato completamente sdoganato dalla comunità ebraica americana che questa volta «non vuole interferire» nelle elezioni israeliane, scrive il Times Of Israel. Ben Gvir intanto avanza come una vaporiera nei sondaggi. L’altra sera una rete televisiva riferiva che Netanyahu, ora a capo dell’opposizione, ha raggiunto un’intesa con Potere ebraico per coordinare assieme la campagna elettorale con il suo partito, il Likud. D’altronde Ben Gvir sa bene dove si deve condurre la campagna elettorale per guadagnare voti in questi giorni decisivi prima del voto del primo novembre: scendendo di persona nello scontro, anche fisico, con i palestinesi e alimentando la tensione e la violenza già alte in questi giorni. Magari con la pistola in pugno.

Pistola che Ben Gvir ha impugnato giovedì sera quando abitanti palestinesi e coloni israeliani si sono scontrati per ore nel quartiere di Sheikh Jarrah. Il capo di Potere ebraico, mentre in Cisgiordania e alla periferia di Gerusalemme Est si vivevano ore e giorni difficili – specie per gli oltre 100mila palestinesi confinati dalle forze armate israeliane nel campo profughi di Shuafat e nel sobborgo di Anata in seguito all’attacco armato di una settimana fa in cui è stata uccisa una soldatessa -, ha deciso di recarsi al suo «ufficio» a Sheikh Jarrah, composto da un tavolo pieghevole e un baldacchino montato mesi fa davanti alla casa dei Salem, una delle 28 famiglie palestinesi a rischio di espulsione dal quartiere. Ben Gvir non ha usato l’arma ma ha chiesto alla polizia di sparare sui palestinesi che lanciavano pietre verso i suoi pretoriani e i coloni. «I politici stanno legando le mani ai nostri poliziotti», ha scritto in un tweet che includeva una sua foto con la pistola. Il deputato comunista Ofer Kassif ha commentato che il posto di Ben Gvir «è in prigione, non alla Knesset».

«Le truppe devono sparare e non usare proiettili di gomma o proiettili. Fuoco vivo, quella deve essere la legge», va ripetendo Ben Gvir lasciando intendere che quando sarà nel governo farà di tutto per dare libertà assoluta a soldati e polizia. Però solo verso i palestinesi che lanciano sassi e non anche contro i giovani coloni israeliani che in questi giorni prendono a sassate le automobili palestinesi e assaltano i commercianti di Huwara e di altri centri nella zona di Nablus. E comunque i soldati sparano già.

Sono oltre cento i palestinesi – molte delle vittime erano armate, ma anche numerosi adolescenti – che l’esercito israeliano ha ucciso dall’inizio dell’anno durante continue incursioni in Cisgiordania. L’ultimo si chiama Abdallah Abu Tin, un medico. Intorno alla sua uccisione ci sono molti interrogativi. La sua uccisione – assieme a quella di un altro palestinese (armato), Matin Debaya – avvenuta ieri alle prime ore del giorno a Jenin, a molti ha ricordato quella di Shireen Abu Akleh, la giornalista della tv Al Jazeera colpita lo scorso maggio mentre svolgeva il suo lavoro durante un raid israeliano.

Per Israele invece Abu Tin non si trovava in strada come medico ma era armato e coinvolto nella battaglia. E anche ha diffuso foto dell’ucciso con in mano due mitragliatori. Secondo alcuni siti palestinesi Abu Tin era vicino alle Brigate dei martiri di Al-Aqsa. Intanto da Gaza le fazioni armate palestinesi hanno fatto sapere di «seguire quanto accade in Cisgiordania», di essere «pronte ad intervenire» e hanno chiesto protezione per la Spianata delle moschee di Gerusalemme dove circa 6mila israeliani, in prevalenza religiosi estremisti e coloni, sono andati «in visita» in questi ultimi giorni.