«Vi chiamate realisti e date ad intendere che il mondo sia realmente costituito nel modo che appare a voi (…) Ecco laggiù una montagna! Ecco una nuvola! Ma cos’è poi “reale”? Tirate via da tutto questo, voi equilibrati, il fantasma degli ingredienti umani! Sì, se lo poteste!». Citando il celebre aforisma 57 della Gaia scienza, Reiner Schürmann dichiarava nella sua ultima opera, uscita postuma, Des hégémonies brisées, di voler prendere Nietzsche alla lettera: con la fantasia, anche il «reale» scomparirebbe per noi. Così, negli anni non certo tramontati del reaganismo, quando la filosofia analitica ingiungeva di dimenticare quel monito – perché potessimo «crederci sobri», perdendo intanto di vista il terreno su cui poggiamo i piedi –, egli ha scritto una topologia problematica dei fantasmi egemonici di ogni epoca, dei siti storici e dei luoghi linguistici del loro apparire, della loro affermazione e del loro tramonto.

Se con Deleuze e Foucault – al quale ha dedicato uno dei saggi più belli e importanti – Schürmann è stato uno dei grandi nicciani del nostro tempo, e se profondamente ispirato a Nietzsche è il suo capolavoro, il libro su Heidegger per eccellenza, Dai principî all’anarchia (riproposto da Neri Pozza nella bella traduzione di Gianni Carchia), possiamo oggi davvero misurare la portata e riconoscere il carattere peculiare del suo ripensamento dell’eterno ritorno grazie alla pubblicazione, esemplarmente curata da Francesco Guercio, de La filosofia di Nietzsche Lezioni alla New School for Social Research (Edizioni Efesto, pp. 290, euro 18,00). Un ripensamento e un confronto lungo e precoce, e in realtà duplice: nel 1975, lasciato da poco il sacerdozio e accolto nell’ateneo newyorkese da Hannah Arendt e Hans Jonas, Schürmann sceglieva infatti di dedicare il suo primo corso a Nietzsche dando seguito non solo a una pratica didattica già avviata alla Duquesne University di Pittsburgh, ma a una meditazione – come mostra Guercio attingendo anche agli archivi dei domenicani francesi – iniziata almeno nel periodo dei suoi studi teologici, quando egli prese parte, ventiseienne, nel 1967, a un incontro fra confratelli sul saggio di Heidegger La sentenza di Nietzsche «Dio è morto».

Reiner Schürmann (1941-1993)

E queste lezioni ci permettono appunto di comprendere meglio l’evoluzione del pensiero «anarchico» di Schürmann nel suo aspetto originale di estrema vicinanza e divergenza dalla visione heideggeriana. Rivolgendo Nietzsche contro se stesso, Heidegger giudicava infatti il nichilismo ancora interno «alla sfera e alla rovina dei valori», quale «inconsapevole irretimento nella stessa cosa, divenuta irriconoscibile» e quindi «compimento della metafisica occidentale sul fondamento della storia dell’essere». Proseguendo su questa strada, Derrida sarebbe poi stato «autorizzato a trattare (almeno in parte) Heidegger come Heidegger ha trattato Nietzsche» (Dai principî all’anarchia). Mettendo in luce la svolta irriducibilmente anti-metafisica compiuta da Nietzsche rispetto a Kant (il filosofo da lui più studiato dopo Schopenhauer), l’anarchico Schürmann si distingue invece dall’uno come dall’altro. Anzi, se la sua interpretazione di Heidegger può tanto distaccarsi da quella derridiana, si potrebbe dire con un raccourci, è perché egli coglie Nietzsche nell’atto di rivolgere Kant contro se stesso facendo finalmente brillare – a dispetto dello stesso Heidegger – l’esplosivo che il criticismo aveva introdotto e abbandonato nella trama del pensiero occidentale. Con le parole più esatte, e rivolte agli allievi, non si tratta così di comparare Nietzsche e Kant, bensì di fissare «l’orizzonte entro cui la “trasvalutazione di tutti i valori” è sorta ed è possibile mostrarla nel suo applicarsi. Se Nietzsche è stato davvero “fatale”, lo è stato innanzitutto per la filosofia trascendentale da cui eredita gli strumenti stessi della sua critica». Non si tratta cioè di riconoscere un tentativo destinato allo scacco o un’incapacità di affrancarsi del proprio antagonista ma di ammettere che il nichilismo è nato ed è rimasto «all’interno del criticismo trascendentale» per condurre però all’«auto-superamento delle intuizioni metafisiche».

In effetti Kant aveva sottoposto alla critica ogni dogma e tutte le pretese alla verità, ma non aveva «mai neppure sognato di criticare la verità e la conoscenza stesse»; certo, aveva scoperto che il problema del fondamento della conoscenza era il problema dei limiti e delle condizioni, ma era rimasto proprio in ciò semplicemente fedele alla ragione, dissipando in questa fede ininterrogata il suo grande sforzo rivoluzionario. Si potrebbe ora ricordare come già per Gerhard Krüger il criticismo fosse a sua volta criticabile, perché fondava la verità sul dogma della facoltà della conoscenza. Schürmann ha letto il Kant di Krüger, e il «suo» Nietzsche non rovescia ma radicalizza Kant, ponendo a sua volta una domanda di tenore trascendentale: la domanda sul genere di uomo, di desiderio o di volontà che tende alla verità. Attraverso Kant egli si è spinto così al di là di Kant, trasformando la critica in genealogia, scoprendo le condizioni di possibilità della verità stessa, riconducendo la sua origine a un determinato interesse della volontà. Egli ha mostrato cioè che il lievito della verità è il suo ingrediente umano (il «realismo» di chi si crede realista), o meglio, con la formula della Volontà di potenza, che «per poter fingere un mondo della verità, dell’ente, si dovette prima creare l’uomo veritiero (e che, inoltre, si credesse, “veritiero”)». Socratismo, come ben si sa, è per Nietzsche il nome di questa invenzione: è la pretesa di curare gli istinti percepiti come pericoli, è la vendetta del sillogismo, la medicina della ragione somministrata «come un narcotico», è la concezione della verità a partire dal male che imprimerà uno stigma patologico all’intera storia del pensiero. «Socrate fu semplicemente a lungo malato», si legge nel Crepuscolo degli idoli, per lui la vita fu un male e il vero medico la morte.

Contro la rinuncia socratica alla vita in nome della verità ideale, contro il platonismo o l’ascetismo – sia cristiano, che abdica al mondo identificandolo col soprasensibile, o kantiano, che fa dell’ideale inattingibile un imperativo, cioè una consolazione – Nietzsche riafferma la forza del pensiero genuinamente tragico, non aristotelico, che dice sì alla vita e non tende alla catarsi poiché della vita sa accettare tutto, persino l’estrema sofferenza che la nega. La stessa disciplina critica viene così utilizzata contro la ragione e le sue armature – contro l’unicità della verità, l’apparato del linguaggio che la sostiene, la pretesa stabilità del soggetto e l’ideale della morale –, mobilitata per liberare la verità tragica dell’amor fati e dell’«eterno ritorno». Perciò la filosofia nicciana «non è il linguaggio della malattia né quello della grande salute, bensì il linguaggio della convalescenza»: è ancora una pretesa di verità, e anzi della verità a qualsiasi prezzo, ma già disposta all’accondiscendenza suprema, aperta all’eterna ripetizione di tutte le cose. Dunque è una propedeutica, è sempre ancora all’inizio, «è tutta un incipit (…) ed è in quanto inizio che (Nietzsche) si comprende».

Risuona forse qui un’eco straniata e distante dell’idea di libertà che Arendt aveva tratto dal calco agostiniano, l’idea dell’uomo che è un inizio e perciò è sempre capace di dare inizio? Per Schürmann si tratta di un tenore più precisamente poetico, per il quale ricorre all’amato René Char di Fureur et Mystère: «le poète, grand Commenceur». E diversamente da Heidegger, che in questa inclinazione di Nietzsche alla poesia aveva còlto un indice di chiaro platonismo – il riflesso della superiorità del mito nel Fedro –, egli vede qui il tratto più antimetafisico e originariamente polimorfo, di apertura al molteplice, alla verità che non è più una, e ai fenomeni finalmente emancipati dagli universali.

Già Eugen Fink aveva voluto sottrarre Nietzsche a Heidegger e al dominio metafisico in nome di Eraclito e del gioco, del pais paizon che fa e distrugge. Eraclitea è per Schürmann la Gerechtigkeit, la giustizia nicciana che infine tutto accoglie senza valutare. E quindi eraclitea, si potrebbe chiosare, è già la filosofia preparatoria, l’incipit costruttivo e annichilente del genealogista, e così è la stessa interpretazione anarchica, di chi, spiegando agli studenti, riconosce nelle verità le configurazioni di dominio, dissipando i fantasmi, aprendosi allo scaturire del molteplice, affinché la montagna o la nuvola appaiano nella loro singolarità.