«La gente qui guarda la televisione russa, ha la testa piena di propaganda, quando gli bombardano la casa pensano che siamo noi» risponde Erich, un volontario dei battaglioni di difesa territoriale ucraini, quando gli chiediamo se possiamo registrare delle interviste con i civili del luogo. Siamo ad Adamivka, a poca distanza dal confine regionale tra gli oblast di Kharkiv e Donetsk.

QUARANTA CHILOMETRI più a nord si trova la città di Izyum, occupata dai russi per la sua importanza strategica in vista dell’offensiva verso il Donbass. Ora che le truppe di Mosca hanno abbandonato quasi tutti i villaggi intorno a Kharkiv, gli ucraini iniziano a parlare di riconquistare anche Izyum. Anche perché, proprio da quest’ultimo avamposto i russi potrebbero tentare di chiudere Kramatorsk e Slovjansk e portare a termine uno degli obiettivi conclamati di questo conflitto, ovvero sottrarre l’intero territorio del Donbass al governo di Kiev.
Erich e i suoi commilitoni all’inizio si sono dimostrati molto schivi. «Perché siete qui?», avevano chiesto ripetutamente. Alle nostre risposte ovvie si erano dimostrati piuttosto increduli, «finora non abbiamo mai visto giornalisti in quest’area, siete stati fortunati». «Perché?».

«Perché se aveste continuato sulla strada che porta verso Izyum saresti potuti saltare in aria, ci sono le mine; oppure vi avrebbero sparato i russi, con i droni o i mortai». «Nessuno prende quella strada» gli fa eco Sasha, un commilitone, «è la strada della morte». L’espressione soddisfa particolarmente i soldati che nel corso delle due ore passate con loro la ripeteranno più volte.

A MYKOLAYIV UN SOLDATO mi aveva spiegato che il tratto dell’autostrada dove ci trovavamo lui lo definiva «la strada della vita», perché i profughi da Kherson rischiavano tutto per avventurarvisi e trovare salvezza a ovest. Ora Erich e Sasha parlano del percorso inverso, riuscendo quasi a trasformare quella via reale e del tutto immanente in un’allegoria del sentiero verso gli inferi. Come lo è tutta questa guerra, del resto: un’ondivaga discesa del nostro mondo verso l’oscurità della sofferenza e della morte.

Dopo aver controllato tutti i documenti e aver atteso un’autorizzazione via radio, Erich ordina di spostare la macchina perché in mezzo allo stradone sarebbe un obiettivo troppo vistoso. Sale in macchina e mi indica un sentiero laterale, sotto un albero dai larghi rami ricurvi.

«SIETE PAZZI» continua a ripetere, alternando delle risatine acute da contadino americano del sud a qualche parola in italiano che gli ha insegnato il fratello, residente a Roma da qualche anno. «Mio fratello vive vicino al papa» racconta, «gliel’ho detto: vallo a trovare e digli di far finire la guerra» e ride di nuovo. Quando raggiungiamo il suo collega e gli altri ci chiedono se vogliamo un caffè e attraverso una siepe molto fitta raggiungiamo la trincea dove sono acquartierati i soldati che presidiano la zona. Non sono molti, la maggior parte volontari dei battaglioni di difesa territoriali, qualcuno anche laureato. Il caffè viene da un thermos al quale bevono tutti, Erich dall’alto della trincea ci rassicura «tranquilli, non abbiamo batteri» e sghignazza.

UN SUO COMMILITONE Vlad, fa gli onori di casa e mostra la baracca. Sotto una tettoia mimetizzata dalla terra e dal fogliame, Vlad ci mostra dei lanciarazzi, «americani» sottolinea compiaciuto, ma prima di lasciarci entrare solleva per la collottola un gatto che dorme accovacciato su una coperta. «Separat, su» dice appoggiandolo sulla sommità della trincea e spingendolo ad allontanarsi un po’. «Ma perché l’avete chiamato così?». I militari ridono e si scambiano battute, Erich ci spiega che qui «sono rimaste circa 400 persone e il 70% sono separatisti, non se ne vanno perché aspettano… (fa un gesto con la mano come a scacciare un pensiero) chissà che cavolo aspettano».

«MA VOI CI PARLATE?» gli chiedo. «Certo! Gliel’abbiamo detto in tutti i modi: vi organizziamo gli autobus, avrete del cibo, un posto dove stare per un po’, qualcuno che vi darà una mano, andatevene! Ma loro niente, restano qui e continuano a guardare la televisione russa».
In lontananza si sentono dei boati, nessuno dei militari ci fa caso, «sono i nostri», spiegano.
«Ma i russi li avete visti qui?». Sasha racconta che ieri un gruppo di Spetsnaz, le forze speciali russe, si è avventurato fino alle loro posizioni, ma poi «bam!» sbatte il pugno sul palmo dell’altra mano. Il comandante, arrivato da poco, un uomo sulla quarantina che prende molto sul serio ogni domanda, approva con un cenno del capo.

IL RACCONTO DI SASHA ricorda quello dei militari di Lyman di due settimane fa, quelli di Avdivka o Pisky. Sono tutti simili: i due schieramenti si bombardano incessantemente, poi i russi tentano delle sortite che secondo gli ucraini sono sempre fallimentari. Alla prova dei fatti, al momento non gli si può dare torto. Come esempio si prenda Rubizhne, quasi tre settimane fa le truppe cecene avevano pubblicato delle foto del loro ingresso trionfale in città, solo ieri fonti russe hanno fatto sapere che le «ultime sacche di resistenza in città sono state eliminate» e che la città è pienamente sotto il loro controllo. A onor del vero va ricordato che, nonostante la città non fosse occupata in toto, la conquista di posizioni strategiche sopraelevate rispetto a Severodonetsk e Lysychansk, le principali città dell’oblast di Lugansk in mano ucraina, ha dato la possibilità all’esercito invasore di bombardare direttamente le postazioni dei difensori. E lo stesso discorso si potrebbe applicare a molti altri centri del Donbass.

STAMANE LE SOLITE FONTI dell’intelligence americana «vicine al Pentagono» hanno ribadito che i russi sono in difficoltà e che la controffensiva ucraina potrebbe effettivamente orientarsi verso Izyum e poi deviare verso sud. Tuttavia, dal campo questa previsione appare eccessivamente ottimistica al momento. Nonostante la telefonata di ieri sera tra i ministri della difesa americano e russo in Occidente sia stata accolta da molti come uno spiraglio di pace, in Donbass, a Mykolayiv, a Dnipro, Poltava e in molte altre città ucraine l’unica voce credibile da ottanta giorni a questa parte sembra quella dei cannoni.