Venerdì 15 novembre l’Inps renderà disponibile il modulo che permette alle imprese di chiedere lo sgravio sul cosiddetto «reddito di cittadinanza». È un elemento importante del sistema che prevede un sussidio pubblico in cambio di lavoro gratuito fino a 16 ore a settimana, mobilità obbligatoria anche su tutto il territorio nazionale e, appunto, l’esonero dei contributi previdenziali di almeno 5 mensilità per le imprese che assumono i beneficiari del «reddito». Lo sgravio sarà calcolato sulla differenza tra i 18 mesi massimo previsti dalla misura e le mensilità già percepite dai suoi beneficiari. Nel caso in cui l’eventuale assunzione non sia a tempo pieno, ma a tempo parziale, è prevista una riduzione del bonus. L’Inps ha ricordato che dovrà essere condiviso tra l’azienda e un’ente di formazione nel caso in cui il lavoro sia coerente con il percorso formativo stipulato con un «patto di formazione».

Se, e quando, partirà il percorso la piattaforma digitale che dovrà incrociare la domanda di lavoro dei beneficiari del «reddito» e l’offerta di lavoro da parte delle imprese. La difficile gestazione di questo sistema di intermediazione di lavoro tramite piattaforma, concepita sul modello delle interfacce americane come Upwork o TaskRabbit, si aggiunge a quelle dei centri per l’impiego gestiti dalle regioni. Presto o tardi, anche su base ridotta e del tutto sperimentale, una quadratura del cerchio sarà trovata. Questi elementi, insieme al bonus per le imprese, dovrebbero finalmente convincere che il sussidio approvato prima delle elezioni europee per dare una spinta ai Cinque stelle (impresa che si è rivelata inutile) non è un «reddito di cittadinanza» ma è in tutto e per tutto quello che viene chiesto a destra e manca: uno strumento per spingere al lavoro, arrivando a destinare alle imprese una parte del sussidio destinato alle persone. Ma ormai il gioco delle parti è consolidato. Nella singolare commedia degli equivoci, iniziata sotto il governo «gialloverde» e proseguita con quello «giallorosso», ci sarà sempre qualcuno che negherà le vere intenzioni di chi ha concepito questo sistema. E, in più, com’è accaduto la settimana scorsa durante la presentazione del rapporto Svimez, ci si lamenterà del fatto che il «reddito» non produce «occupazione». Non lo fa perché il sistema delle politiche attive non è ancora partito. E non si tiene nemmeno conto che il primo dato da controllare non sarà il tasso di occupazione, bensì quello della disoccupazione. Il «reddito» aumenterà questo tasso, non l’altro, in primo luogo. E così ieri abbiamo assistito di nuovo al tentativo di convincere sulla validità dissuasiva di una misura che prevede il carcere per i «furbetti» (il presidente Inps Tridico), alla condanna morale di pochi «falsi percettori» del «reddito» (la ministra del lavoro Catalfo) mentre la viceministra all’economia Castelli ha detto: «Questa è una politica attiva. Così stanno le cose, fatelo sapere a tutti».

Dovremmo sapere che questo è un «workfare» per poveri e disoccupati. Se mai produrrà un effetto, sarà quello di trattenerli nella trappola della precarietà trasformando quello che dovrebbe essere un diritto in un bonus per imprese che li assumeranno a tempo pieno, forse. Probabilmente part-time. Il tempo per incassare il bonus. Tutti gli altri beneficiari- il 70% su 900 mila è stato calcolato- godranno del sussidio per 18 mesi. Ci si chiede se non era meglio istituire un vero «reddito di cittadinanza». Forse più basso di quello che, in media, è riconosciuto oggi, ma esteso a più persone e senza condizioni. Poteva essere un inizio.