Enrica Morlicchio, docente di sociologia del lavoro alla Federico II di Napoli, la povertà assoluta nel 2023 ha raggiunto un record storico secondo l’Istat. Perché non ci si ribella?
Perché non ci si considera più come portatori di diritti in maniera continuativa. Si sa che un beneficio si può dare e si può togliere, com’è avvenuto con il «reddito di cittadinanza» che non era esente da molti difetti, a cominciare dal fatto che penalizzava le famiglie numerose. In Italia ci si adatta a ricostruire i redditi e le tutele come in un puzzle. Avverto reazioni di disperazione individuale o di rabbia che si esprimono attraverso Tik Tok dove vi sono molti video di ex percettori di «reddito di cittadinanza» incazzati. Ma tutto questo non si traduce in una protesta collettiva. Ciascuno è alla ricerca di soluzioni individuali, anche perché pochi si pongono il problema della rappresentanza dei poveri.

Enrica Morlicchio (Federico II)
Enrica Morlicchio (Federico II)

La presidente del consiglio Meloni ha ripetuto ieri che «la povertà non si abolisce per decreto», che il reddito di cittadinanza lasciava «nella marginalità», mentre il suo governo «mette le imprese nelle condizioni di lavorare al meglio». Cosa le si può rispondere?
La inviterei a riflettere sul fatto che un paese democratico deve garantire molte persone che sono state escluse da un lavoro dignitoso pagato il giusto o non sono in grado di svolgerlo per ragioni contingenti o strutturali. Non sempre l’occupazione protegge dal rischio di povertà donne sole con part-time involontario, lavoratori over 50 in processi di skidding, cioè di scivolamento verso il basso, o giovani precari. E non sempre lo sviluppo di cui si parla garantisce un’uscita dalla povertà. Invece di dare sgravi fiscali alle imprese o ai professionisti potrebbe pensare di darli ai lavoratori a basso reddito. Soprattutto bisogna evitare che i figli ereditino la povertà dei genitori. E questo non sta avvenendo.

Come si spiega e quando è iniziato il boom della povertà?
Dai dati che abbiamo a disposizione il boom è iniziato dal 2014, perché è da allora che l’Istat ha ricostruito le serie storiche dopo gli ultimi cambiamenti nella classificazione. Ma sappiamo anche che la povertà sta aumentando dalla crisi del 2008. Da allora è triplicata. Solo nel 2019 è diminuita, quando fu creato il reddito di cittadinanza con un investimento economico maggiore di misure precedenti. Ma l’effetto è stato di breve durata. Con la pandemia e l’inflazione è aumentata di nuovo. In soli dieci anni, dal 2014 al 2023, l’incidenza della povertà individuale è aumentata di tre punti percentuali, quella familiare di due.

Cosa significa?
Si sta attenuando la caratterizzazione familiare della povertà e stiamo andando verso un processo di individualizzazione, molto più marcato al Nord. Qui, in termini assoluti, abbiamo 136 mila individui poveri in più in un solo anno. Gli individui soli e poveri sono molto più vulnerabili di quelli che vivono in una famiglia. E rischiano di subire le conseguenze della stigmatizzazione sociale che colpisce chi è in grado di lavorare e viene definito «povero non meritevole». Ad essere colpiti sono i più giovani fino ai 17 anni rispetto agli anziani che sono protetti dal sistema pensionistico e hanno potuto godere di una carriera professionale più stabile. Insomma andiamo verso una povertà più incarognita e triste, più simile a quella che si vede nel Nord Europa. Tuttavia si confermano anche le caratteristiche del regime della povertà in Italia.

Quali sono?
Anche se il Nord si sta avvicinando, dai dati Istat risulta che la povertà resta più alta al Sud, è più alta tra le famiglie numerose con figli minori, è stabile tra quelle composte da soli stranieri dove tuttavia rimane alta.

Che ruolo ha il «lavoro povero»?
Fondamentale, purtroppo. Questa condizione è peggiorata. Dai nuovi dati emerge che l’incidenza di questa povertà è la più alta oggi dal 2014. Il lavoro alle dipendenze, e in particolare quello operaio, non protegge dalla povertà e non garantisce una vita dignitosa.

Quanto ha inciso l’inflazione e il caro vita?
Sull’aumento della povertà nel 2023 direi molto. Sono aumentate le spese per i trasporti, la salute e i generi alimentari. Questo significa che l’aumento dei prezzi ha colpito i più poveri e incide sulla qualità dell’alimentazione con rischi di obesità e malattie cardiocircolatorie. E significa anche che l’impegno dello Stato sociale sui trasporti e sulla sanità sta venendo meno.

Molti insistono sul salario minimo. È la soluzione?
Potrebbe essere una. Ma bisogna pensare ad una riforma dell’intero sistema delle relazioni industriali che tenga conto dei grandi cambiamenti nel mercato del lavoro.

Nel libro che ha scritto con Chiara Saraceno e David Benassi «La povertà in Italia» (Il Mulino) parlate di uno «Stato sociale arlecchino». Che cos’è?
È la frammentazione delle prestazioni sociali, la moltiplicazione di sussidi che si sovrappongono ed escludono le persone. Lo vediamo con l’«assegno di inclusione» che ha sostituito il «reddito di cittadinanza» o dai dati sull’assegno unico per i figli dove in alcuni casi è avvenuta una perdita di prestazioni. O l’assegno di accompagnamento per gli anziani voluto dal governo. È stato propagandato come una misura di sostegno agli anziani, ma usa una logica categoriale e selettiva e ne esclude tantissimi. La coperta non è solo corta, è diventata un fazzoletto.