Quanto è superata la forma mentis del Novecento? Quanto sono distanti da noi relativismo, disintegrazione e disseminazione del senso, panestetismo elitario? Può essere letto come un test in merito il quarto libro (in ottanta anni) del più raffinato e celebrato scrittore russo vivente, Saša Sokolov, Trittico (Triptich, 2011), edito in italiano da Miraggi (traduzione di Martina Napolitano, pp. 240, €  21,00) summa e consuntivo di una intensa parabola creativa della quale, dopo due decenni di silenzio, lo scrittore russo torna a riallacciare i fili, sospesi tra il modernismo faulkneriano (Scuola di scemi), lo sperimentalismo neoavanguardistico (Inter canem et lupum) e il postmodernismo (Palissandreide).

Trittico si interroga e interroga anche noi su quale sia stata e sia oggi la strada dell’arte, su chi ancora è disposto a credere alla costruzione del bello in sé, svincolato da ogni fazione e mozione. In una Russia già affetta dal putinismo la risposta è stata desolante. Ma anche altrove il ritorno di uno scrittore un tempo leggendario ha avuto flebile eco, tanto che quella di Martina Napolitano, promotrice a livello internazionale del verbo sokoloviano, è la prima traduzione in assoluto.

Il dubbio esito del test non è comunque ascrivibile al nuovo Sokolov, che non è mai epigono di se stesso e propone una chiave espressiva, fluida, sintetica, resa aerea dal ritmo. Perché, in primo luogo, Trittico è una sfida a cancellare definitivamente i confini tra prosa e poesia: dopo avere messo in tensione, in tutti i suoi libri,  la prosa fino a un grado di densità fonico-espressiva così estremo da rallentarne la fruizione ben più che in poesia, lo scrittore russo opta ora per versi liberi meno compressi e esasperati della sua prosa; l’attrito si sposta tra semantica – vaga, astratta, eterea – e ritmo, che avanza a spire, in un afflato pressoché ininterrotto (mai un punto fermo) eppure placido, sobrio, non riconducibile a nessuna tipologia metrica (men che meno al sillabo-tonico della tradizione russa) ma intenso e trascinante, sacrale per la sacralità intrinseca che ha la parola in Russia e, al tempo stesso, ludico per ineffabile leggerezza.

Trino e uno, quasi a evocare un intrinseco agnosticismo cosmico, il libro è la sommatoria di tre poemetti, uniti e distinti secondo criteri imperscrutabili: il ritmo connotante non cambia, ma nel primo i versi molto lunghi tendono a avvilupparsi, a scorrere gli uni sugli altri, mentre nel secondo sono altrettanto lunghi ma dinamici, quasi volanti, e nel terzo si passa a versi brevi e scanditi. Il tessuto poetico è però inconfondibile e omogeneo, contraddistinto da catene allitterative che divengono autentiche macchie d’omofonia estese a più versi: per darne un’idea senza ricorrere alle pur eccellenti doti mimetiche della traduttrice, prendiamo «nelle trattorie di Rimini e Taormina», che è praticamente in italiano nel testo. Allo stesso modo, in assenza quasi totale di personaggi in qualche modo definiti (non ci sono neppure le maiuscole), gli argomenti di un poema sono presenti in misura ridotta negli altri, molti motivi sono trasversali a tutti e tre (e a tutta l’arte di Sokolov, salvo quello del catalogo, elenco, registro, fin tassonomia linneana, che è distintivo di Trittico).

Il polilinguismo verte prima più sul latino e il greco, poi sul tedesco, infine sullo spagnolo e il sanscrito (sempre per flash, per isole, senza invadenza). Insomma, data la dominante musicale nell’immaginario e nella terminologia, si potrebbero intendere come tre pezzi, tre brani, suscettibili o meno di assemblarsi in sinfonia.

Il primo, Ragionamento, è una scansione pressoché ininterrotta del procedimento del catalogo, in primo luogo di riflessioni, di discorsi, e poi via via di lingue, forme d’arte, errori, o semplicemente fogli e documenti contabili. Superato lo sconcerto iniziale, ci si rende conto di essere entrati in un universo nel quale la comunicazione avviene principalmente in seconda persona, sia singolare che plurale (cui si aggiunge il «voi» russo di rispetto): da un lato il narratario è il soggetto, il «tu» eterno della poesia si autoflette, parla in realtà dell’«io», dall’altro si avvicenda un numero non identificabile né definibile di personaggi, che si chiamano, s’interrompono, si sovrappongono di continuo; la narrazione è straordinariamente fratta, si ha l’impressione di essere in qualche luogo imprecisato assieme a un numero sterminato di persone che dialogano; il tempo, invece, è quello canonico di Sokolov, del tutto indistintamente presente, passato o futuro, un tempo in cui «la sabbia dispersa nel sahara/ dai sette samurai,/ si sistemerà, si incollerà/si riunirà, tornerà come prima». Al «ragionamento» principale, come prevedibile, mai si arriverà, anche se potremmo inferire che in qualche modo lo sono gli altri due testi.

Nel secondo poemetto, Gazibo, il luogo è all’apparenza ben definito, il padiglione da giardino del titolo, con grafia modellata sulla pronuncia del termine inglese (che non esiste in russo); altrettanto lo è il tempo, dalle prime stelle al crepuscolo del mattino, durante il quale le voci alle quali siamo ormai abituati, e che in queste circostanze assumono da subito una connotazione ultraterrena, quasi vampiresca, discutono del bello in arte. L’intercambiabilità cronotopica assoluta è perciò accompagnata qui da alcune specifiche concrezioni: da una riunione di trovatori del 1111, alla Germania rinascimentale a una cornice tardo ottocentesca.

C’è anche un abbozzo di personaggio, il musicista cinquecentesco Antonio Scandello, girovago per le corti tedesche, accostato o assommato all’Ebreo errante, proiettati entrambi sul destino esule del creatore, in termini assoluti e specifici (Sokolov è in emigrazione dal 1975). Solo qui troviamo una parvenza di intreccio, plurimo e mutevole, ma estremamente dinamico e coinvolgente: il racconto in prima persona di una vedova di guerra («io» è però ora lei, ora il marito) dal bacio rituale in chiesa con uno sconosciuto passa senza soluzione di continuità a una maratona erotica quasi ininterrotta, alla quale il partner zoologo e/o musicista aggiunge continui tradimenti con le femmine di bonobo che ha messo a disposizione delle sue ricerche; alla crisi coniugale segue l’ospedale psichiatrico, l’arruolamento in un reggimento musicale e la morte mentre si esibisce in trincea.

La chiusa è un evidente climax, e il terzo testo, Il filornita, riparte da atmosfere più rarefatte, fondamentalmente una rappresentazione teatrale in un museo zoologico nel quale avvengono misteriose apparizioni, in primis di una «secca señora» ispanofona che è la dama-morte visitatrice comune a tutti i testi di Sokolov: l’addio non potrà perciò arrivare da un cicerone in gondola che salpa dall’isola di San Michele a Venezia, sacrario degli artisti del Novecento.

In italiano tanto incoercibile fantasia linguistica resta sorprendentemente viva grazie alla molto efficace e raffinata traduzione di Martina Napolitano, capace di reinventare con lecito arbitrio porzioni del tessuto paronimico e di innescare con raffinata sensibilità musicale la fascinazione sommersa del ritmo, che continua, come nell’originale, a trasmettere scosse e vibrazioni: «un contesto, un carattere, un tratto del continuum,/ un arto perso in corsa, un pezzo, volendo, di destino».