Sarvnaz Alambeigi

«In Iran qualcosa si muove, ma certo non ci sono stati i grandi cambiamenti che chiedevamo, le regole alla base della società sono ancora lì. Credo però che il mondo nel suo complesso non sia più quello di un tempo» ci racconta su zoom Sarvnaz Alambeigi. La regista iraniana, ormai stabilitasi a Düsseldorf, presenterà alla Berlinale (nella sezione Generation) il documentario Maydegold. Il titolo riprende il nome della ragazza protagonista, un’immigrata afghana in Iran che persegue con tutte le proprie forze un sogno: diventare una lottatrice professionista di Muay thai. Come spiega Alambeigi, le giovani generazioni potrebbero essere realmente portatrici di uno scarto: «Ci troviamo in una nuova era, quella digitale. E anche le ragazze del Medio oriente hanno i social network, i giovani sono aggiornati e conoscono i loro diritti. I governi o le famiglie non possono più controllarli allo stesso modo». Anche per questo la regista ha deciso di raccontare la storia di Maydegold.

Come ha conosciuto la protagonista?

Volevo sapere di più delle giovani generazioni di afghani, come minoranza che vive in Iran. Ho fatto ricerche per circa un anno e un’altra ragazza, anche lei nel film, mi ha presentato Maydegold. Sono andata così alla sua lezione di box, l’ho incontrata e mi ha invitata al match del giorno successivo. Lei è stata molto aperta, e sapeva che la sua storia era importante per il mondo.

Come ha trovato il suo sguardo all’interno del film?

Era molto importante per me non interferire nella sua vita personale. Credo che la cosa più importante, quando si gira un documentario, sia la fiducia, e tra noi c’era senz’altro. Inoltre, anche se con la camera mi tenevo a una certa distanza, quello che lei raccontava era la storia delle donne in un Paese come l’Iran da cui provengo, per cui sentivo di trovarmi dentro il film. Certo, non posso dire di essere nei suoi panni, ma ci sono molte similitudini. Ho provato a essere una buona ascoltatrice, come le pietre a cui a volte Maydegold si rivolge, per poi restituire le nostre conversazioni.

Entrambe siete infatti donne con delle ambizioni. Che tipo di difficoltà ha incontrato per realizzare i suoi obiettivi?

Ci sono così tanti ostacoli di fronte a una donna che vuole fare la regista, e in maniera specifica in Medio Oriente non è per niente semplice. Ho affrontato tante sfide, da quelle finanziarie, alla produzione, alle riprese… anche nel girare questo film, ci sono state difficoltà. Ero terrorizzata dal padre di Maydegold, non sapevo quale sarebbe stata la sua reazione se avesse capito che stessimo girando un film.

La protagonista vive poi una situazione complessa perché, non avendo un regolare passaporto, non può lasciare il Paese. L’unica soluzione sembra il matrimonio.

È proprio così, la maggioranza delle ragazze segue quella strada perché è la più semplice. Dopo la fine delle riprese Maydegold è andata in Afghanistan per ottenere il passaporto, mettendo la sua vita a rischio. Nonostante ora lo abbia, nulla è cambiato: non le rilasciano i visti per espatriare, e infatti purtroppo non potrà nemmeno essere a Berlino, stiamo lavorando per averla in videoconferenza e rispondere così al pubblico. Non poter uscire dal Paese non le permette nemmeno di combattere nei match. Lei ama così tanto quello sport, il suo talento si può vedere nel film, ma c’è anche un’altra ragione per cui lo pratica ed è la situazione di violenza domestica in cui si trova. È uno degli aspetti simbolici del film, non ha a che vedere soltanto col combattimento vero e proprio, ma col combattere per la sua vita.

Cosa ne pensa dell’ascesa dell’AfD in Germania?

Da immigrati non siamo per niente contenti. Il loro è vero razzismo, e il mondo non ne ha bisogno. Anche il mio film parla di questo, di come gli iraniani dovrebbero cambiare atteggiamento dei confronti degli afghani, che lì sono «gli immigrati».