«A chi muore va il rispetto dovuto. Di Romiti lascio che ne parlino bene tutti, ma io non posso. So che tutti lo stanno beatificando, io ho il dovere di ricordare chi sia stato, lo devo ai lavoratori della Fiat e alla verità storica». Diego Novelli, sindaco di Torino dal 1975 al 1985, fa questa premessa alla richiesta di un’intervista sulla figura di Cesare Romiti.

Diego Novelli

Novelli, magari potremmo partire da un aneddoto simpatico sui vostri rapporti che dia il senso di chi fosse Romiti…
Non ci può essere un aneddoto simpatico con Romiti. Lo conobbi come massimo dirigente della Fiat e sinceramente non è stato uno dei migliori: carattere, prosopopea e soprattutto contrapposizione di classe accentuata. Niente di paragonabile a Umberto Agnelli, un vero dirigente industriale moderno che non aveva livore: spero che la storia riesca a gratificare le sue capacità ora non riconosciute.

Partiamo dall’arrivo alla Fiat. Romiti era romano, tutt’altro stile rispetto al modello sabaudo.
I problemi con lui non c’entravano niente con il fatto che non fosse torinese o della famiglia. E poi bisognerebbe smetterla di utilizzare il termine “sabaudo” per Torino: si tratta di una monarchia ignorante che ha poco a che fare specie con la Torino del dopoguerra.

Il rapporto fra Gianni Agnelli e Romiti è però centrale per la storia della Fiat. Fu lui a lasciare a Romiti la gestione dell’azienda, un vero amministratore delegato.
Sì, Gianni c’era e non c’era, dell’azienda non si è mai occupato veramente. Ereditò tutto dal nonno e arrivò dopo Valletta che aveva creato la Fiat. Gianni scelse Romiti, che scalzò Umberto: ciò si rilevò un errore per la Fiat perché Romiti la portò al declino. In quel periodo c’erano altri dirigenti di valore – come Gian Mario Rossignolo – invisi a Romiti.

La storiografia corrente però assegna a Romiti la vittoria nella vertenza del 1980 grazie alla mitica «marcia dei 40 mila» colletti bianchi di cui fra qualche mese ricorre il 40ennale.
E proprio su quei giorni che partirono con la sua decisione di 50 mila licenziamenti di rappresaglia, che Romiti continuò a sostenere due falsi storici che oggi è giusto smascherare.

Prego.
Il primo è su quella marcia che non fu certo dei 40 mila: sì e no in corteo saranno stati 16 mila e quel corteo fu usato in modo smaccato per piegare l’esito della vertenza.

Cesare Romiti (foto di Dino Fracchia)

E il secondo falso?
Il secondo falso di Romiti è forse ancora più grave e riguarda il comportamento di Berlinguer ai cancelli di Mirafiori. Romiti sostenne che Berlinguer andò ad incitare i lavoratori a occupare la fabbrica. Invece i filmati e l’audio riportano fedelmente la risposta di Berlinguer ad una domanda di un operaio (che noi pensammo fosse di Lotta Continua) su come il Pci si sarebbe comportato in caso di occupazione. Berlinguer disse: «Noi saremo sempre dalla parte dei lavoratori, ma questo è un compito che non ci compete, la decisione la dovrà prendere il movimento sindacale discutendo con i lavoratori». Tutt’altro che un «incitamento all’occupazione» come sostenne Romiti.

Anche sull’esito della vertenza le cose sono meno lineari: il governo intervenne, propose una mediazione (la cassa integrazione al posto dei licenziamenti) accettata dal sindacato. Ma nella notte cadde per 17 franchi tiratori.
È proprio così. La trattativa fu molto lunga: io andai a Roma e spiegai direttamente al presidente della repubblica Sandro Pertini che c’era il rischio che tutto marcisse. Pertini telefonò a Gianni Agnelli che cadde dalle nuvole, aveva lasciato tutto in mano a Romiti.

Lei da sindaco del Pci percepì il momento decisivo per Torino, ma la città come visse la vertenza e la contrapposizione anche tra i lavoratori?
La città l’ha vissuta molto male, ha sofferto molto. Era il periodo del terrorismo: la gente non usciva più di sera e nonostante i gruppettari soffiassero sul fuoco per occupare Mirafiori, tra gli operai fecero pochi proseliti. Io con la Fiom, con la Cgil, con Lama, cercammo di mantenere la barra dritta denunciando che i licenziamenti erano ingiustificati e figli della gestione sbagliata di Romiti.

Piero Fassino, allora «responsabile fabbriche del Pci torinese», ricorda la «scarsa adesione» allo sciopero contro i 61 operai licenziati perché considerati vicini ai terroristi e parla di Romiti come di «un uomo risoluto, determinato» ma «empatico» e «curioso» con «la ferma convinzione del ruolo centrale e insostituibile dell’impresa».
Non cambia mai quel ragazzo.