«Mentre il sultano passeggiando visitava le file di abitazioni, le strade e i mercati di quell’antica metropoli e vasta fortezza, fece mostra del suo desiderio di osservare la chiesa chiamata Ayasofia, che è modello del paradiso: «O sufi, se cerchi il Paradiso, Ayasofia del Paradiso è sommo cielo». Così il cronista Tursun Bey, testimone della conquista di Costantinopoli nel 1453, racconta l’incontro tra Mehmet II il Conquistatore e la chiesa che per i cristiani è Aghia Sophia, la «Santa Sapienza».

TURSUN LA DESCRIVE parzialmente in rovina, soprattutto per gli edifici annessi, ma dotata di una cupola che «rivendica eguaglianza con le Nove Volte celesti», al punto da reputare che nessun ingegnere contemporaneo sarebbe più stato in grado di replicarla. Mehmet II volle salire fino alla cima: «la scalò come Gesù – l’Alito di Dio – ascese fino al Quarto Cielo», continua il cronista: da lì ne ammirò i mosaici e i marmi, ma volgendo lo sguardo verso le rovine circostanti meditò anche sulla volubilità del mondo.

Mehmet II volle farne una moschea, la prima sultaniale della città, dal momento che era stata basilica imperiale per tutta la sua storia, oggi quasi bimillenaria. Era stata fondata con il nome di «Grande Chiesa» nel 360 sotto Costanzo II, figlio di Costantino il Grande, nei pressi del Palazzo Imperiale. Teodosio II la fece riedificare, ma sotto Giustiniano, forse durante la rivolta della Nika del 532, la chiesa venne incendiata. Allora l’imperatore decise per una ricostruzione pressoché totale, descritta dallo storico Procopio di Cesara: più di diecimila persone furono impiegate nella costruzione, e Giustiniano fece portare materiale da tutto l’impero, come le colonne ellenistiche del Tempio di Artemide a Efeso, le pietre delle cave di porfido d’Egitto, il marmo verde della Tessaglia, la pietra nera della regione del Bosforo e la pietra gialla della Siria. A sovrastare il tutto la cupola ammirata da Tursun Bey, alta oltre 55 metri.

La storia successiva di Aghia Sophia fu tutt’altro che pacifica: pochi decenni dopo l’edificazione, nel 558, la grande cupola crollò e la si dovette ricostruire; durante la crisi iconoclasta fra VIII e IX secolo le immagini furono portate via, alcune distrutte o disperse; nel 989 un nuovo terremoto fece rovinare una parte della cupola e la chiesa poté essere riaperta cinque anni più tardi.

 

ALTRE MINACCE furono mosse dall’esterno: nel 1204 un esercito latino, condotto fino alla città dalle navi veneziani e dall’anziano doge Enrico Dandolo, con la scusa di riportare sul trono l’imperatore Alessio Angelo, spodestato dallo zio, attaccò l’antica capitale; durante un primo assalto l’incendio arrivò quasi ad Aghia Sophia, nel corso del secondo e definitivo la chiesa fu profanata e le sue reliquie vennero saccheggiate dai conquistatori. Lo storico bizantino Niceta Coniata scrive che la mensa sacrificale «compagine di tutti i materiali preziosi (…) fu sminuzzata e ridotta in mille pezzi dai predatori», e per portare via tutti i beni e gli ori «vennero introdotti fino nei penetrali della chiesa muli e animali da soma».

ALL’INSEGNA della tradizione imperiale, quando i latini si spartirono la città e l’impero, in essa fu incoronato imperatore dell’effimero «impero latino d’Oriente» il conte Baldovino IX delle Fiandre (e lo stesso avrebbe fatto Michele VIII Paleologo una volta ripresa la città), mentre il veneziano Tommaso Morosini ne divenne patriarca: per impulso di papa Innocenzo III, si cercò di costringere i greci a passare sotto Roma, ma i tentativi di latinizzare Costantinopoli ebbero poco successo, e la conquista del 1204 fu sempre sentita come un vulnus profondo, la pietra tombale sui rapporti fra le due Chiese. Al punto che, quando poco prima della conquista turca del 1453, Roma promise soccorso all’imperatore in cambio dell’accettazione della supremazia del pontefice, questi accettò, ma nella capitale il clero si rivoltò, preferendo gli ottomani ai latini.

DOPO LA CONVERSIONE in moschea, Ayasofia ha vissuto fasi diverse: i successori di Mehmet fecero a gara per abbellirla, per tutto il Cinquecento; con il declino dell’impero ottomano vi fu anche una decadenza dell’edificio, al quale cercarono di rimediare gli architetti italiani Gaspare e Giuseppe Fossati a metà dell’Ottocento. Con la rivoluzione nazionalista di Atatürk, nel 1934-35 si volle laicizzare Ayasofya, per il significato sacrale che aveva rivestito sotto cristiani e musulmani, trasformandola in un museo: furono tolti allora molti orpelli aggiunti nel tempo, per riportare alla luce i mosaici e i marmi. Ma aveva ragione Mehmet II a meditare sulla volubilità delle cose: il romanzo di Ayasofia/Aghia Sophia continua.