Anche il quartiere romano di Rebibbia ha deciso di festeggiare a modo suo la giornata mondiale della Salute. Lo ha fatto occupando Villa Tiburtina, un centro sanitario pubblico nel quadrante orientale di Roma chiuso dalla Regione dal 2012 e che, nonostante l’emergenza sanitaria e l’annunciato rilancio della sanità territoriale, nessuno vuole rimettere in funzione. Così ieri mattina un centinaio di abitanti del quartiere si è presentato davanti ai cancelli della struttura ancora in ottime condizioni e ne ha riaperto i cancelli chiusi da quasi un decennio. Obiettivo: chiedere per l’ennesima volta la restituzione di un pezzetto della sanità pubblica sottratto dai tagli alla sanità.

La storia di Villa Tiburtina rappresenta tutte le distorsioni con cui la sanità pubblica italiana si è presentata all’appuntamento con la pandemia. Fino al 2012, era un ambulatorio specialistico. Lo gestiva l’università Sapienza attraverso il policlinico «Umberto I», su lascito della nobildonna Eleonora Lorillard Spencer Cenci che ne aveva vincolato la destinazione alla cura delle malattie polmonari. Qui avevano sede anche diversi servizi di cure primarie della Asl locale. Un centro sanitario nevralgico, in uno dei distretti sanitari più grandi d’Europa, la ASL Roma 2 con oltre un milione di assistiti.

La chiusura del centro sotto le insegne della «razionalizzazione» non ha certo diminuito i bisogni sanitari del quartiere. Adesso in zona, per le analisi meno importanti, è diventato normale servirsi direttamente nelle farmacie, diventate mini-cliniche private. Per cose più serie, bisogna recarsi nello scintillante e costoso «Gemelli medical point» di San Basilio, un modernissimo ambulatorio privato aperto dall’ospedale più grande di Roma, quello che Giovanni Paolo II soprannominava il «Vaticano Terzo» per gli ottimi rapporti con la Curia. Secondo una legge quasi matematica, ogni buco della sanità pubblica si trasforma in un’occasione di business per quella privata. Visto da qui, il Lazio assomiglia moltissimo alla vituperata Lombardia, con gli ordini religiosi e le loro ramificazioni al posto degli imprenditori. E ai tanti luoghi d’Italia in cui sono sorte vertenze analoghe a quella di Villa Tiburtina: a Roma si chiede anche la riapertura dell’ospedale «Forlanini», a Torino quella del «Maria Adelaide». Anche il «Vittorio Cosentino» di Cariati (Cs) è stato occupato allo stesso scopo.

In tempo di Covid, è diventato impossibile convincere gli abitanti di Rebibbia che si possa fare a meno di una struttura nata proprio per curare le malattie dei polmoni. Così, tra un’ondata e l’altra è nata l’assemblea di quartiere «Riapriamo Villa Tiburtina». «La sua chiusura non fa nemmeno risparmiare» spiega Barbara Lepri, attivista del comitato. «Anche da chiusa, la struttura costa 60 mila euro l’anno solo per la guardiania e la manutenzione». Le spese sono a carico della fondazione «Eleonora Lorillard Spencer Cenci», che dovrebbe vigilare affinché l’università e la regione Lazio rispettino il vincolo di utilizzo. «La fondazione però non ha più fondi – spiega Lepri – e se arrivasse un’offerta potrebbe vendere». Secondo qualcuno, l’offerta già c’è: si parla di un centro privato per dializzati, l’ennesimo servizio di base trascurato dalla sanità pubblica che fa gola all’impresa.

L’assemblea invece ha elaborato un piano organizzativo per i servizi da restituire al quartiere, insieme al «Coordinamento regionale sanità» e al comitato «Mammut»: Villa Tiburtina potrebbe ospitare una postazione per effettuare i tamponi antigenici, un centro d’ascolto per i cittadini, ambulatori specialistici per il pubblico. «Abbiamo raccolto oltre tremila firme» spiega Lepri. «Regione, università e fondazione hanno mostrato disponibilità solo a parole: un tavolo per la riapertura non è mai iniziato e così abbiamo deciso che Villa Tiburtina potevamo riaprirla noi». Perché, come recita il mammut disegnato da Zerocalcare sui muri della fermata «Rebibbia» della metropolitana, «qui ci manca tutto, non ci serve niente».