«Un film autoprodotto viene considerato di nicchia, per cui non è facile farlo vedere. Ma io credo nell’umanità di questi due personaggi, e la loro precarietà si rispecchia nella mia». Così Federico Francioni parla di Rue Garibaldi, film vincitore della sezione documentari all’ultimo Festival di Torino e oggi in tour, a Genova giovedì 5 maggio e poi a Milano giovedì e venerdì al Festival del cinema africano, Asia e America Latina. Interamente realizzato da Francioni – girato, montato, prodotto e distribuito – Rue Garibaldi racconta la storia di Rafik e Ines, fratello e sorella siciliani emigrati nella periferia parigina. Nonostante la loro giovane età emerge, nella prossimità col regista, la spinta all’emancipazione e la gioia dell’indipendenza ma anche la consapevolezza dei meccanismi di sfruttamento in cui sono assorbiti.

Come nasce l’idea di questo film?

Ero a Parigi per frequentare gli Ateliers Varan, la scuola del cinema diretto. Ci avevano chiesto di lavorare sul tema della gioventù, allora ho pensato di cercare sul gruppo Facebook «Giovani italiani a Parigi» dei ragazzi o delle ragazze di cui potessi raccontare la storia. Ne ho incontrato diversi, alla fine ho conosciuto Ines e Rafik e i discorsi sui migranti e l’identità che avevo in mente si sono in parte dissolti di fronte alla loro storia.

Quanto tempo hai trascorso con loro?

Ho dormito sul loro divano per quattro mesi con la camera sempre al mio fianco. Per me non erano i protagonisti del film ma innanzitutto due persone con cui ho stretto un rapporto di amicizia. Non sapevo che strada avrebbe preso quello che stavamo facendo, e fino a che non c’è stata la proiezione a Torino con la sala piena, solo allora in un certo senso è diventato cinema anche per Ines e Rafik, totalmente estranei a quel mondo.

Che idea ti sei fatto del loro percorso?

Mi ha colpito il fatto che avessero vissuto già tante vite a soli 20 anni. Rafik era stato candidato in Sicilia col Partito Socialista, in Francia aveva poi lavorato come autista Uber, in una spirale di precarietà per cui per pagare la macchina doveva essere sempre attivo, senza nemmeno tornare a casa per dormire. Entrambi lavoravano da quando avevano 9 anni al call center dei loro genitori, e andare all’estero è diventata per loro una sorta di missione per restituire qualcosa al padre e alla madre.

Il miscuglio di lingue con cui parlano è affascinante e divertente, cogliamo le influenze da cui sono attraversati ma anche il loro superamento in uno «slang» privato.

Sì, mischiano dialetto siciliano, arabo, francese in una lingua tutta loro. Sono un tramite di altri mondi, di culture che coesistono. Il legame con il Paese di origine, la Tunisia, è molto complesso, ci erano stati solo una volta ma ci tenevano molto, mentre la Sicilia l’avevano introiettata in maniera molto forte. Sono delle traiettorie che non volevo però che rinchiudessero le loro vite in delle formule. Infatti il film è autoprodotto perché non sono riuscito a trovare un produttore che capisse lo sguardo di questo lavoro, mi chiedevano se parlasse di migranti. Io rispondevo che i protagonisti erano due ragazzi quasi adolescenti che vivevano fuori, mi interessavano loro come esseri umani. Il film per me era un’esperienza da fare al presente per mettermi in ascolto della loro esistenza, è stato un processo molto bello, un incontro che si fa giorno per giorno e poi anche nel montaggio, nel riportare tutto a un senso da rendere condivisibile con altre persone.

Ora stai lavorando ad un progetto insieme a Gaël de Fournas, dove ti porterà? Continuerai sulla strada del documentario?

In questo nuovo percorso, ambientato in Marocco, ci sono delle tematiche di fondo che mi riportano allo stesso punto, ovvero allo spaesamento, alla perdita di punti di riferimento. Realizzare Rue Garibaldi è stato un modo per specchiarmi, ho condiviso con Ines e Rafik la precarietà e un senso del mondo esploso, mi interessa raccontare questo sentimento e credo che lo porterò avanti. Prima o poi mi piacerebbe passare anche al cinema di finzione ma per adesso la forma documentaria mi permette di fare delle esperienze, degli incontri, la trovo molto libera. Risponde alla necessità di andare oltre l’idea di fare un film in favore di un’esperienza umana.