«Se sterminiamo definitivamente gli scarafaggi nessuno al mondo ci verrà a giudicare». Era la primavera di 30 anni fa quando da Kigali, capitale del Ruanda, la Radio Televisione Libera delle Mille Colline incitava al genocidio della popolazione della minoranza etnica tutsi, fomentando uno dei più impressionanti massacri che la storia ricordi.

Nello stato che sorge nel cuore dell’Africa appena sotto la linea equatoriale, anni di divisioni politiche e sociali e di conflitti tra le etnie hutu e tutsi trovarono il culmine in cento giorni di follia collettiva che portò allo sterminio di centinaia di migliaia di persone: uomini, donne e anche bambini perché, proclamava la propaganda, «i serpenti vanno eliminati insieme alle uova».

Le cifre esatte non si sapranno mai, il numero che oggi le autorità ruandesi offrono come ufficiale è di un milione di persone. Il numero reale è probabilmente di circa 800mila morti. Sono dimensioni comunque spaventose. Due terzi della popolazione tutsi fu uccisa. Con loro vennero eliminati migliaia di hutu considerati «moderati» o «collaborazionisti» e circa un terzo di un gruppo etnico minore, i batwa (quelli che noi chiamiamo pigmei).

La maggior parte dei massacri fu compiuta da milizie paramilitari, ma anche da gente comune, con machete, lance e bastoni. Il mondo distratto da altre crisi globali non si rese neppure conto di quello che stava accadendo se non quando fu troppo tardi. «Per noi il genocidio erano le camere a gas, quello che accadde in Germania. Non potevamo pensare che si potesse compiere un genocidio a colpi di machete», dirà l’allora segretario generale dell’Onu, l’egiziano Boutros Boutros-Ghali.

COME MICHAEL JACKSON

Tra le tante storie del genocidio, emerse anche grazie al lavoro del Tribunale penale internazionale per il Ruanda (ICTR), una in particolare riguarda la musica e il ruolo di un artista a suo tempo definito «il Michael Jackson del Ruanda», Simon Bikindi. Bikindi era nato nel 1954 in un villaggio contadino nel nord-ovest del paese, figlio di genitori che alternavano il lavoro di contadini e artigiani a quello di musicisti nelle feste della regione. Imparò a suonare l’inanga, uno strumento tradizionale simile alla cetra, e apprese dalla madre un repertorio di imigandi, lunghi poemi musicali che erano al centro di esibizioni scandite da canti corali e balli. Da ragazzo fu animatore di un gruppo teatrale-musicale studentesco che si esibiva in gran parte del paese. Venne poi reclutato nel 1977 dal Ministero della gioventù e della cultura per far parte del dipartimento dedicato al folklore e alla danza e per guidare la compagnia Urukerereza che aveva il compito di diffondere le tradizioni ruandesi, ma anche creare propaganda e consenso per il presidente autocrate Juvénal Habyarimana di etnia hutu. Col passare degli anni divenne una delle figure artistiche e culturali principali del paese, fondando diverse compagnie di canto e ballo, esibendosi in raduni e organizzando festival e concorsi.

Agli inizi degli anni Novanta la situazione politica e sociale ruandese divenne sempre più instabile, con l’inizio di un conflitto, a partire dal nord-est, tra il Front patriotique rwandais (FPR), composto in gran parte da esuli tutsi, e l’esercito regolare a difesa del regime monopartitico di Habyarimana. Bikindi divenne protagonista del clima culturale di quegli anni, scrivendo canzoni sulla carta «patriottiche», ma dalle connotazioni sempre più radicali e che, spesso grazie all’uso di proverbi e immagini classiche della cultura locale, richiamavano l’orgoglio nazionale e la superiorità razziale hutu contro gli «aggressori» e minoritari tutsi.

La situazione degenerò quando la crisi sembrava quasi risolta. Nell’agosto 1993 vennero firmati in Tanzania degli accordi di pace che avrebbero dato spazio nel governo anche ad elementi dell’FPR. Ma in diversi raduni, scanditi dalle canzoni di Bikindi, la frangia più estremista di hutu si opponeva in maniera sempre più decisa a qualsiasi concessione. Intanto si accumulavano machete e, a iniziare dalle aule scolastiche, si procedeva all’identificazione etnica di gran parte degli abitanti.

Il tutto deflagrò il 6 aprile del ’94 quando venne abbattuto da un missile l’aereo su cui viaggiavano Juvénal Habyarimana con il presidente del Burundi Cyprien Ntaryamira. Con loro moriva ogni speranza di moderazione. Gli estremisti hutu presero il sopravvento e iniziarono i massacri.

Furono le frequenze della Radio Télévision Libre des Mille Collines (RTLM) ad annunciare la notizia della morte del presidente e, dopo mesi di propaganda estremista, diffusero un messaggio che era diventato chiaro a tutti: «Al lavoro! Al lavoro!». In questo quadro la musica era da tempo parte della strategia. RTLM era nata solo come strumento di guerra, puntava su un pubblico giovane in una società in cui la radio era il mezzo di comunicazione di massa più diffuso e presente. La programmazione musicale attirava gli ascoltatori che venivano poi sommersi di messaggi nazionalisti e anti-tutsi.

Le canzoni di Bikindi erano gli inni preferiti e divennero poi la colonna sonora della mattanza. I gruppi armati che immersero nel sangue le foreste equatoriali ruandesi, erano armati di machete e in mano avevano le radio. RTLM non parlava mai di tutsi, ma di «scarafaggi» e «serpenti», incitava e indirizzava le squadre della morte in gran parte auto-organizzate o costituite da un gruppo paramilitare chiamato Interahamwe, veri e propri manovali del genocidio. Simon Bikindi venne arrestato nel 2001. Dopo essere stato profugo a Goma in Congo per diversi anni, era approdato in Europa e al momento dell’arresto era a Leida, nei Paesi Bassi. L’arresto era basato su un’incriminazione dell’ICTR per sei capi d’accusa ai sensi della Convenzione sul genocidio.

L’artista era accusato di essere stato, con i suoi comizi e le sue canzoni, un istigatore delle stragi, ma anche di aver partecipato in prima persona ad alcuni omicidi di massa. Il processo iniziò nel settembre del 2006 ad Arusha in Tanzania e vennero chiamati in causa quasi 60 testimoni e diversi periti. «È come mettere a processo Bob Dylan per le sue canzoni di protesta», commentò sarcasticamente John Floyd, un avvocato americano coinvolto nella difesa di diversi imputati accusati di istigazione al genocidio. Il processo a Bikindi si occupò di musica, ma non solo.

I TESTI

Il cantante, a quanto fu appurato, aveva lasciato il paese proprio all’inizio di aprile ’94 per farvi ritorno a giugno quando i massacri erano ancora in corso. Durante le udienze vennero analizzati i testi delle sue canzoni. L’accusa fece riferimento a tre specifiche composizioni musicali cantante nella lingua locale ruandese, il kinyarwanda: Twasezereye («Abbiamo detto addio al regime feudale»), Nanga Abahutu («Odio questi hutu») e Bene Sebahinzi («I figli del padre dei contadini»). L’accusa sostenne in particolare che Twasezereye era un appello pubblico alla solidarietà hutu in opposizione a ogni accordo di pace e che Nanga Abahutu e Bene Sebahinzi incoraggiavano gli hutu a schierarsi contro un nemico comune. Le sfumature linguistiche del kinyarwanda e l’utilizzo di tipiche espressioni e proverbi tradizionali furono analizzate da periti di parte. Nei versi delle canzoni, che sono dei lunghi dialoghi musicati, in cui a una voce risponde il coro, il linguaggio era simbolico e metaforico, ma chiaro a chi ascoltava e a chi era calato in quel contesto politico. Lo stesso accadeva negli appelli di Radio Mille Colline. Secondo l’accusa tre concetti erano chiarissimi nella canzone Nanga Abahutu («Odio questi hutu»). «Il primo – disse il procuratore all’imputato nel corso dell’udienza – è che lei odia gli hutu che si sposano con i tutsi; il secondo è che lei odia gli hutu che hanno rapporti con i tutsi; e il terzo, che lei sta insinuando che non c’è nulla di male nell’uccidere un tutsi». «Tutte le interpretazioni sono possibili, ma sono tutte sbagliate», replicò Bikindi. Il processo però cercò di portare alla luce atti anche più concreti e gravi. A più riprese, nel 1993 e nei mesi di febbraio, marzo e fine giugno 1994, Bikindi fu visto girare su un mezzo dotato di un sistema di diffusione sonora per trasmettere le sue composizioni musicali e messaggi di propaganda. Alla fine di giugno 1994 era in testa a una carovana di miliziani Interahamwe sulla strada principale tra due comuni nell’ovest del paese, annunciando: «La popolazione maggioritaria, siete voi, gli hutu a cui sto parlando. Sapete che i tutsi sono minoranza. Sterminate rapidamente quelli rimasti».

Nel corso del processo furono poi presentati otto diversi episodi di uccisioni sommarie in cui alcuni testimoni indicarono la presenza, spesso con un ruolo di comando, di Bikindi. Uno degli eventi più spregevoli era lo stupro e l’uccisione di un’infermiera hutu e del figlio di 4 anni, un teste affermò di aver sentito il cantante dire ai miliziani: «Non c’è altra soluzione. Dovete andare e ucciderla». Non fu però possibile corroborare con prove esaustive l’effettiva veridicità di queste ultime gravissime accuse. I giudici chiarirono nella loro sentenza finale che ritenevano le canzoni di Bikindi uno strumento funzionale al genocidio e che questo fosse l’intento dell’artista quando le aveva composte. Essendo state però registrate prima del 1994, non rientravano nella giurisdizione temporale della corte. La corte stabilì inoltre che Bikindi non era direttamente responsabile per la loro trasmissione su RTLM che di fatto trasformò la sua musica nel sottofondo dello sterminio. Tuttavia, visto il ruolo e la fama di Bikindi come artista nazionale, il Tribunale sentenziò che aveva esercitato un’influenza sufficiente per incitare al genocidio attraverso la parola quando aveva percorso le strade del paese diffondendo le sue canzoni miste ai messaggi di odio.

LA CONDANNA
Il 2 dicembre 2008 venne condannato a 15 anni di carcere, diventando il primo musicista professionista nella storia processato e ritenuto colpevole da un tribunale internazionale per crimini legati a un genocidio. Bikindi, malato di diabete, finì di scontare la sua pena nel 2016 ed è morto nel dicembre del 2018. Professò fino all’ultimo la sua estraneità agli episodi di cui era stato accusato, definendosi solo un artista la cui arte era stata strumentalizzata da una formazione politica. In un’intervista rilasciata all’etnomusicologo Jason McCoy, che ha compiuto un ampio studio sul caso (disponibile al sito bikindiresearch.com) l’artista ha difeso le sue canzoni: «L’RPF ha preso il potere e ha messo in testa alla gente che le mie canzoni sono state la causa del genocidio. Ma non è vero».

I massacri in Ruanda si conclusero nel luglio del 1994 con la vittoria militare del Front patriotique rwandais comandato da Paul Kagame che dal 2000 è il presidente del paese. L’intero repertorio di Simon Bikindi è stato messo al bando. Il paese ha vissuto in questi anni un sorprendente sviluppo economico e sociale, ma Kagame, rieletto nel 2017 alla presidenza del paese con il 98,8% dei voti, è stato da più parti accusato di violare i diritti umani e di sostenere il gruppo M23 (Mouvement du 23 mars) che dal 2012 è impegnato in una guerriglia nel nord-est del Congo. L’accusa è anche di sfruttare la memoria del genocidio per consolidare agli occhi del mondo la sua autocrazia. Sono passati 30 anni, ma quei cento giorni di sangue segnano ancora la storia del paese delle mille colline e il cuore dell’Africa.

Il caso Bikindi rappresenta in realtà un tragico ponte tra passato e presente. Un processo a un artista musicale per crimini legati a un genocidio aveva un precedente, quello di Wilhelm Furtwängler, stimatissimo direttore dell’Orchestra filarmonica di Berlino che alla fine della seconda guerra mondiale fu accusato di collaborazionismo con il regime nazista. In realtà la sua colpa era stata principalmente quella di non aver scelto la via dell’esilio e di aver continuato la sua attività al servizio del Reich, a discapito di quello che stava accadendo intorno a lui. Il processo, svoltosi a Berlino, lo definì seguace di Hitler, ma lo assolse. Non aveva avuto alcun ruolo concreto nella macchina di propaganda nazista. Il processo di Norimberga condannò però a morte Alfred Rosenberg, che assieme a Goebbles, fu il più feroce e radicale megafono del nazismo, così come il Tribunale penale internazionale per il Ruanda ha condannato gran parte dei responsabili delle trasmissioni di RTLM. Tra essi anche l’unico europeo coinvolto nel genocidio, il belga di origini italiane Georges Ruggiu, che fu speaker dalle frequenze dell’emittente e ha finito di scontare la sua pena in Italia nel 2009. La lezione è che non possono esistere crimini di guerra o genocidi senza una propaganda. Come ha detto al ricercatore Jason McCoy un sopravvissuto dalle stragi ruandesi: «Se potessi spiegare come tutto è potuto accadere, farei ascoltare quelle canzoni».

In diverse parti dell’Africa e del mondo ci sono casi che richiamano o hanno richiamato le canzoni dell’odio di Samuel Bikindi. Il popolare artista sudafricano Mbongeni Ngema fu paragonato da una testata locale a Bikindi per la canzone Ama-Ndiya, un’invettiva contro gli immigrati indiani in Sudafrica che fomentava l’intolleranza e che ai tempi suscitò l’indignazione e la condanna anche di Nelson Mandela. Nel 2012 tre popolari artisti musicali del Kenya, Kamande Wa Kioi, Muigai Wa Njoroge e John DeMathew, e un conduttore radiofonico, Joshua Arap Sang, furono denunciati davanti a un organismo nazionale per l’integrazione (National Cohesion and Integration Commission). L’accusa era di aver fomentato una rivolta di stampo etnico dell’etnia kyuku contro la comunità luo che portò a più di mille morti nelle settimane dopo le elezioni politiche svoltesi nel 2008. Joshua Arap Sang è stato oggetto anche di un’inchiesta da parte della Corte penale internazionale dove è stato assolto per insufficienza di prove.

NUOVE INTOLLERANZE

Veniamo a storie di oggi. In India si sta affermando tra i giovani induisti un genere musicale chiamato Hindutva pop o H-pop, che celebra il nazionalismo hindu e soprattutto sparge intolleranza nei confronti dei musulmani, vittime frequenti di violenze religiose. «L’India è la terra degli induisti, i musulmani devono andare in Pakistan», canta Prem Krishnvanshi, uno degli esponenti di punta di un genere che secondo un quotidiano indiano «sta richiamando milioni di ascoltatori, senza che il governo dica nulla». Lo scorso novembre in Israele è diventato virale il rap Harbu Darbu del duo musicale Ness & Stilla. È un invito alla rappresaglia per gli attacchi di Hamas dell’ottobre 2023, ma cita come nemici anche le celebrità che hanno espresso dichiarazioni in difesa della popolazione di Gaza come Bella Hadid, Dua Lipa e Mia Khalifa. «Non ci sarà perdono… ogni cane ha quello che si merita alla fine», recita la canzone che ha raggiunto milioni di ascolti sui social e le piattaforme di streaming.

Trent’anni fa si parlava di scarafaggi, serpenti oggi di cani. Prima regola della dottrina dell’odio: negare la dignità umana a chi identifichi come tuo rivale.