Era un sopravvissuto al genocidio del 1994, Kizito Mihigo, ma del genere che oggi risulta indigesto al presidente Paul Kagame per la presa di distanza maturata nel corso degli anni dal partito – il Fronte patriottico ruandese – e dai metodi del capo. Soprattutto, il 38enne Mihigo era un cantante molto amato in Ruanda, ragione per cui la sua morte avvenuta ieri mattina in una cella a Kigali ha fatto scalpore. E ora sono in molti a scommettere sulla scarsa veridicità della versione fornita dalle autorità, che parlano di suicidio.

Mihigo era stato arrestato quattro giorni prima mentre cercava di passare illegalmente il confine con il Burundi – è sempre la versione ufficiale – per unirsi a non meglio identificati «gruppi di terroristi ostili al governo ruandese». Dal suo entourage confermano il desiderio di cambiare aria, ma respingono energicamente la tesi ribellista.

Star di un genere chiamato gospel, che con il suo omonimo afroamericano condivide principalmente l’afflato religioso, Kizito Mihigo è stato definito da Jeune Afrique un’«icona della riconciliazione» proprio per il ruolo svolto dalle sue canzoni.

Tuttavia una di queste, Igisobanuro Cy’urupfu (Il senso della morte) nel 2014 si era spinta un po’ troppo in là: Mihigo, da orfano sopravvissuto al massacro, spezzava cristianamente una lancia a favore dei carnefici e attaccava la vendicativa narrazione ufficiale del regime.

 

Il brano venne censurato e poco dopo Mihigo finì in carcere con accuse pesantissime: sarebbe stato a capo di un complotto per uccidere il presidente e per questo condannato a dieci anni. Salvo poi essere graziato – resta pur sempre uno degli autori dell’inno nazionale ruandese- dallo stesso Kagame, che gli impone però una sorta di libertà vigilata. Quella che avrebbe infranto nel tentativo, rivelatosi poi fatale, di lasciare il paese.