La frattura tra il capo dell’esercito ucraino, Valerii Zaluzhny, e il presidente Zelensky si allarga dopo l’incidente costato la vita a 19 soldati. Zaluzhny ha definito uno «scempio» organizzare una passerella a così breve distanza dal fronte e mutilare così una «delle brigate più valorose dell’esercito ».

IERI IL CAPO DI STATO ha sospeso il comandante della brigata «per la durata delle indagini», lasciando intendere che il caso lo interessa personalmente. Intanto fonti ufficiali dell’amministrazione di Kiev si affrettano a chiarire che la morte del maggiore Gennady Chastiakov, assistente di Zaluzhny, è stata un incidente. Al maggiore sono esplose tra le mani delle granate che, secondo una prima ricostruzione, un colonnello gli aveva impacchettato per regalo. Uno scherzo dal finale tragico, insomma. Di questo avviso il ministero dell’Interno di Kiev ma la coincidenza del fatto con la faida tra politica e militari a molti è sembrata singolare.

SENZA CONTARE le voci, attribuite al parlamentare ucraino Vladimir Ariev, sull’intenzione del ministero della Difesa di sollevare Zaluzhny dall’incarico di comandante in capo delle forze armate. Uno dei consiglieri di Zelensky si è affrettato a smentire l’indiscrezione e Ariev ha poi cancellato il messaggio originale, dichiarando di aver ricevuto informazioni differenti. L’intervista all’Economist del generale sullo «stallo di fatto» del conflitto hanno fatto infuriare il presidente che da una settimana è impegnato in una guerra silenziosa contro l’altro uomo forte d’Ucraina. Inoltre, Zelensky ha definitivamente chiuso la porta alle elezioni presidenziali del 2024. «Dobbiamo decidere che ora è il momento della difesa, della battaglia, da cui dipende il destino dello Stato e del popolo» e dunque «non il momento giusto» per le elezioni. A proposito di scadenze, il canale israeliano Channel 12, ha fatto sapere che la visita di Zelensky a Tel Aviv per il momento è saltata ed è stata rinviata a data da destinarsi.

DALL’ALTRO LATO del fronte, anche Mosca ha fatto molto parlare di sé ieri. «Alle 00.00 del 7 novembre 2023, la procedura del ritiro della Russia dal Cfe (Trattato sulle Forze Armate Convenzionali in Europa), è stata completata» ha dichiarato il Cremlino ieri. Uno degli ultimi baluardi della distensione post-Guerra fredda in Europa è caduto. La risposta della Nato è stata immediata e nel pomeriggio dall’Alleanza hanno fatto sapere che i Paesi membri sospenderanno il Cfe «per tutto il tempo necessario, in conformità con i propri diritti e con il diritto internazionale».

IL CFE era in vigore dal 1990 e comprendeva 34 stati membri sia della Nato che dell’ex-Patto di Varsavia. Alla base l’idea che per appianare i conflitti tra Est e Ovest fosse necessario porre limiti al dispiegamento di armamenti e che le varie organizzazioni sovranazionali (Csi e Nato) operassero controlli incrociati sui firmatari. A partire da ieri Mosca non sarà più tenuta ad accettare ispezioni sulle armi incluse nel Trattato. In realtà è dal 2007 che il Cremlino aveva sospeso la sua partecipazione al Cfe e dal 2015 aveva annunciato la sua intenzione di ritirarsi, avviando le pratiche burocratiche a maggio di quest’anno. Dunque la mossa di ieri ha più un valore simbolico che pratico, ma alla luce della sospensione del trattato sul controllo degli armamenti nucleari con gli Usa, il New Start, è come se il Cremlino avesse posto un altro mattone nel muro che sta costruendo di fronte all’Occidente.