Rossana Rossanda: «Quasi quasi preferirei vincesse Merkel»
Dialogo su Europa e politica «Mi trovo spesso nella sconsolatezza più totale. In Europa non c’è un partito socialista decente». E sull’Italia: «Metà del centrosinistra è con le politiche neoliberiste di Bruxelles. Deve ripartire il conflitto sociale»
Dialogo su Europa e politica «Mi trovo spesso nella sconsolatezza più totale. In Europa non c’è un partito socialista decente». E sull’Italia: «Metà del centrosinistra è con le politiche neoliberiste di Bruxelles. Deve ripartire il conflitto sociale»
La curiosità non invecchia mai. È vero. Ci penso quando, tornando dall’Assemblea Cittadina di Podemos che ha visto Iglesias trionfare, arrivo a Parigi per chiacchierarne con Rossana Rossanda.
Mi accoglie nella sua casa, vuole sapere dei risultati, ha mille domande su tutto, sui militanti, sulle modalità con cui si è svolto quello che lei si ostina a chiamare congresso, sulle sensibilità che si sono confrontate.
Per Rossanda «è importante che ci sia un Podemos agguerrito e pronto allo scontro politico».
In poche battute riassume quello che vede intorno in Europa.
INIZIA DALLA FRANCIA, dove è nel vivo la campagna per le presidenziali. «Su Marine Le Pen mantengo un dubbio, perché in Francia ci sono stati 30 anni di pregiudiziale antifascista e non penso possa dissolversi di colpo, annullarsi con un voto così a destra». Senza mezzi termini aggiunge: «Fillon è travolto dagli scandali e quindi politicamente morto. Hamon sono gli stessi socialisti a non volerlo. Peccato perché la sua proposta di reddito di cittadinanza mi sembra molto buona. Proprio Mélenchon, del Fronte de gauche, gli fa la guerra, rifiutando l’idea di una maggioranza composita».
Un rifiuto che a lei che vive qui, che segue il dibattito, sembra solo un gran pasticcio. «E poi c’è Macron, l’outsider che il partito socialista ha lanciato. Non certo come socialista, ma come uomo dell’Unione europea».
UNA EUROPA che Rossanda vede «spaventata, un po’ con l’acqua alla gola, ora che sempre più paesi non vogliono e non possono stare ai suoi diktat, una Europa che sta esplodendo».
Anche la Germania la preoccupa. Non si fida del balzo di Martin Schulz, «non lo vedo bene. Die Linke forse rappresenta meglio la sinistra, ma davvero senza entusiasmi». Con un sorriso provocatorio mi prende in giro dicendo «quasi preferirei una vittoria della Merkel. Quello che io so dei socialisti, forse sbagliando, è tutto molto negativo».
Sgrano gli occhi. Il quadro che disegna del socialismo europeo è demoralizzante, dice. «Mi trovo spesso nella sconsolatezza più totale. In Europa non c’è un partito socialista decente».
«IN SPAGNA c’è questa speranza di Podemos, con la sua radice di massa e il suo non volersi chiudere. Ecco, quello che temo adesso è proprio un suo isolamento. I grandi mascalzoni che sono in Europa proveranno a bloccare anche Podemos, che ha il compito molto arduo di tenere vivo il conflitto. È una contraddizione positiva che guardo con interesse, anche se resto un po’ scettica sul leaderismo di Iglesias con quella sua aria un po’ da professorino, un po’ da protagonista».
Anche Errejón ha un’aria troppo da bravo ragazzo, aggiungo io. Siamo d’accordo e scherziamo sul look di Pablo Iglesias, sulla coda di cavallo, sulla camicia bianca, mai brillante come quelle di Renzi, come se ne avesse sbagliato il lavaggio, sulla cravatta rossa sfoggiata nel discorso a fine congresso, sul quel pugno sempre alzato.
«Io ci ho riflettuto molto. Penso che oggi ci sia un bisogno spontaneo della gente di avere più una persona a cui collegarsi che un’idea. Ripenso a quando, all’inizio della storia del manifesto, noi 3 o 4 più in vista, sicuramente avevamo molti difetti, ma non la superbia del personalismo. Certo noi eravamo belli e molti ci criticavano proprio perché belli e troppo bon vivant per essere dei comunisti».
Un the, qualche cioccolatino, due coccole a Mefis, la gatta nera, e subito riparte con le preoccupazioni teoriche.
Mi domanda di quel gruppo degli anticapitalisti di Podemos, vuole sapere se sono anche comunisti. «Si chiamano così perché gli altri non lo sono? In Italia quasi nessuno più si dichiara anticapitalista o, se dicono di esserlo, spesso lo sono così come io sono una tigre. E che fine ha fatto Marx? Vorrei si rimettesse negli impianti teorici della sinistra almeno un poco di Marx e, perché no, anche un poco di Lenin».
Ma aggiunge determinata: «La sola cosa di Lenin che non mi sentirei di riproporre è la necessità della violenza e della dittatura del proletariato. Perché non è vero che te la puoi cavare sulla questione della libertà, non è mai vero. Come manifesto almeno abbiamo riconosciuto che il problema c’era».
NON LA CONVINCE l’uso in Podemos dell’interpretazione di Laclau che, secondo lei, «confonde il conflitto di classe. Mentre la riscoperta di Marx può servire per ridefinire proprio quel concetto di classe. La composizione di classe è cambiata. Resta il problema di chi lavora e di chi dipende dal lavoro. Oggi anche il lavoro è diverso. È urgente cercare di riconsiderare qual è il soggetto sociale che spinge per il cambiamento. Mi pare evidente che la fabbrica non sia più il centro produttivo, e che c’è molto di quello che al tempo avremmo chiamato lavoro morto, consegnato oggi ad un sistema di macchine e tecnologie molto più complesso. Il problema resta ed è come li metti insieme questi nuovi soggetti, come li fai confrontare. Ora è più facile, perché i sistemi di comunicazione sono più forti di quelli di allora. Sono colpita, alla mia età che è un po’ avanzata, come da quel movimento del 15M si sia prodotto un partito, oggi che nessuno sembra volere più i partiti, mentre un punto di coordinamento, il più democratico possibile, devi sempre averlo».
Mi chiede nei dettagli come si è svolto il congresso, chi ha deciso gli interventi. Le dico che non c’era un tavolo di presidenza, sorride stupita, che l’ordine degli interventi era stato deciso dal dibattito in rete e nei circoli territoriali, interventi di 10 minuti solo per illustrare i documenti.
Si lamenta, «ma 10 minuti sono pochi per approfondire!», le dico che se si sforava il tempo c’era un pianista che iniziava a suonare un motivetto per accelerare la conclusione.
«PODEMOS PER CONTINUARE a crescere deve lavorare attraverso i conflitti e il lavoro parlamentare, bisognerebbe fare un po’ come faceva il Pci».
Qui sente di dover fare un’autocritica su Togliatti: «All’epoca eravamo tutti anti-togliattiani per la sua prudenza, però se non fosse morto nel 1964 sarebbe stato meglio. Sicuramente la prudenza gliela aveva suggerita Stalin».
«Oggi non c’è una scorciatoia. Se non riparte il conflitto sociale, sugli interessi materiali e su alcuni diritti, non si andrà da nessuna parte. In Italia metà del centrosinistra è d’accordo con le politiche neo-liberiste dell’Europa. Il risultato del referendum sulle riforme costituzionali è stato un segnale netto. Lo spazio per un progetto che contrasti Renzi e le sue politiche deve partire da questo, se ci si vuole misurare con l’ascesa del populismo e di questo M5S, che io considero un pericolo».
Parliamo delle femministe di Podemos, del feminizar la politica.
«Mi piace molto la loro idea di uguaglianza, la preferisco a quella di parità. Ero dubbiosa sulla manifestazione del 26 novembre, invece mi sono ricreduta. È stata partecipata, è un percorso importante».
Mi chiede dell’otto marzo, le racconto dell’idea di sciopero. «I sindacati hanno aderito?».
Il pomeriggio è finito.
Raccolgo gli appunti, mi lancia un’ultima domanda «Podemos come comunica? Ha un giornale? Perché, per quello che ho visto, solo il manifesto, tra i tanti giornali che leggo, ha capito l’importanza di quel congresso e gli ha dedicato un inserto».
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