È appena uscita per la casa editrice Mimesis, nella collana «Minima/Volti», una nuova traduzione dello scritto di Hannah Arendt su Rosa Luxemburg (pp. 138, euro 10). Si tratta di una recensione che Arendt scrisse in occasione della pubblicazione della biografia in due volumi di Peter J. Nettl dedicata a Luxemburg nel 1966 e poi inserita come «ritratto» nel libro del 1968 Man in Dark Times. Sotto l’attenta e rigorosa cura di Rosalia Peluso che, oltre alla traduzione ne firma anche la postfazione, emerge quanto e come il pensiero rivoluzionario di Rosa Luxemburg sia stato un faro per le riflessioni di Hannah Arendt sullo spirito tradito della rivoluzione, sul totalitarismo, sull’imperialismo e sul senso sorgivo dell’azione politica. Il rispecchiamento in questa donna così ostracizzata, marginalizzata ma anche per certi versi mitizzata e strumentalizzata, porta Hannah Arendt a riconoscere come un colpo di genio la biografia di Nettl perché riesce a sottrarla a tutte quelle leggende costruite intorno alla sua figura per restituirla alla piena realtà della sua vita storica. Ma non solo.

IL PRIMO ELEMENTO che in apertura di questo scritto Arendt valorizza è il fatto che, seppur rientrando nel genere storiografico della «biografia definitiva» atta a celebrare i personaggi «vincenti» della storia, lo sfondo su cui si dipana la trama della narrazione non è la storia dei vincitori ma la completa unità di vita e mondo. Un’unità che, in Rosa Luxemburg, vive sotto il segno di un fallimento e di una sconfitta umana e storica senza precedenti. Alla «donna sbagliata» cui si attribuiscono ontologicamente errori e sentimentalismi di varia e sospetta natura, all’accusa reiterata di una scarsa scientificità delle sue analisi, alla costruzione postuma e distorta del «luxemburghismo», il merito di Nettl è quello di aver saputo sbarazzarsi dei pregiudizi che pesavano sulla sua figura e restituire, in maniera obiettiva quanto appassionata, la «verità» relativa al più importante e originale contributo di Rosa Luxemburg che riguarda in primo luogo la teoria e l’azione politica. Ciò comporta un primo passo per riscoprire la sua autentica dimensione di scienziata della politica e per riconoscere come un elemento di grande valore quella «virilità» che lei era costretta a rivendicare per sé per avere diritto di parola nel contesto tutto maschile del socialismo tedesco. Tale rivendicazione la tenne lontana, purtroppo, dalle battaglie delle suffragette per l’emancipazione femminile che per lei rappresentava solo una piccola parte del problema più generale dell’emancipazione dell’umanità nel suo complesso.

COME GIUSTAMENTE nota la curatrice, la stessa ansia di giustizia che animava Rosa Luxemburg si ritrova in Hannah Arendt, la quale, seppur non aderendo al movimento femminista, ha dedicato a donne esemplari dei ritratti di grande forza e intensità e, inoltre, ha dimostrato nel corso degli anni di influenzarlo notevolmente attraverso le fondamentali categorie della sua teoria politica, a partire da quella della pluralità e della natalità. Hannah Arendt riconosce il fatto che l’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht il 15 gennaio del 1919 sia stato un punto di non ritorno non solo per la sinistra tedesca ma per tutta la sinistra europea. Il tradimento dello spirito rivoluzionario, il suo «tesoro perduto», è tutto dentro la storia di questa donna il cui insuccesso può essere ascrivibile al fallimento stesso della rivoluzione.

Arendt pone questo interrogativo: che volto avrebbe avuto la storia europea se in essa avessero trionfato la vita e l’opera di Rosa Luxemburg? Il rifiuto da parte di Rosa di un’adesione cieca e acritica alla teoria marxista e alla politica bolscevica, la rende, suo malgrado, un outsider a prescindere dal fatto che fosse donna e, in aggiunta, un’ebrea non tedesca. Prova ne è la sottovalutazione totale della sua grande opera L’accumulazione del capitale (1913) che Arendt, al contrario, considera uno dei più lucidi lavori sulle origini economiche dell’imperialismo. Nel suo contraddire i principi astratti della dialettica hegeliana e marxiana, Rosa Luxemburg descrive fedelmente il processo di riproduzione capitalistico inserendo tra la tesi e l’antitesi un terzo fattore. L’accumulazione si crea per l’esistenza necessaria di strati o paesi non capitalistici. Se nell’idea di Marx la società era organizzata secondo uno schema astratto che postulava da una parte i capitalisti e dall’altro i proletari, il processo di accumulazione rimaneva senza una fondata risposta. Il terzo fattore ipotizzato dalla Luxemburg spiega coerentemente il processo capitalistico in virtù del quale si accumula capitale sfruttando i mercati non capitalistici. Ora, questo meccanismo è, secondo Luxemburg, alle origini dell’imperialismo.

COME NOTA ARENDT, nella seconda parte de Le origini del totalitarismo, l’imperialismo è innanzitutto un fenomeno economico che nasce dal contrasto che si crea tra i limiti spaziali dello Stato nazionale e l’inesauribile volontà di espansione del capitale. Ma ci sono anche altri motivi teorici per cui Luxemburg ha subito un destino di denigrazione. Il principale è il giudizio che lei ha espresso sulle contraddizioni che emergevano nella rivoluzione bolscevica e che riguardava in modo particolare la questione della libertà: la libertà, diceva Luxemburg, è sempre la libertà di chi pensa diversamente e il suo esercizio plurale è condizione stessa dell’azione politica. Le misure di restrizione della libertà messe in atto dai bolscevichi andavano in tutt’altra direzione. Un altro elemento che Luxemburg esprimeva nelle sue analisi e che è stato lungamente frainteso e su cui Arendt si sofferma riguarda la spontaneità dell’azione politica. Per entrambe spontaneità significa libertà e non ha nulla a che fare con quelle forme di spontaneismo o di improvvisazione che sono divenute le pratiche politiche del nostro tempo.

Quando Rosa Luxemburg dice che la rivoluzione non si fa ma si intercetta, non sta criticando la funzione dell’organizzazione nel processo rivoluzionario, ma sta elaborando un criterio al quale avrebbero dovuto attenersi i cosiddetti rivoluzionari di professione nel seguire il flusso degli eventi senza determinarli aprioristicamente. Da questo pensiero possiamo escludere che la storia abbia un volto evenemenziale e messianico al tempo stesso: la storia è, come diceva anche Hannah Arendt, fatta dai liberi e spontanei atti di volontà umana. Nella sua interpretazione sono state le contingenze del mondo a spingere Rosa Luxemburg a prendere parte all’azione rivoluzionaria. Se lo stato degli affari umani non avesse offeso il suo senso di giustizia e di libertà avrebbe potuto occuparsi di tutt’altro: aveva un talento talmente versatile che la spingeva verso la storia, l’economia, le scienze e la natura. Anche questa sua attitudine naturalistica è stata a lungo oggetto di derisione.

SCAMBIATA per una romantica e ingenua amante della natura, Luxemburg aveva invece un’idea drammatica di natura: in essa vedeva quella stessa oppressione che i suoi compagni di partito leggevano soltanto nella storia umana. Questa capacità di saper scorgere l’ingiustizia in ogni manifestazione della vita è, secondo Arendt, una delle eredità che veniva dall’appartenenza di Luxemburg al «gruppo di pari», ebrei assimilati provenienti dall’est Europa, in particolare dalla Polonia e dalla Lituania. Come scrive Nettl nella sua biografia, questo gruppo di pari e di paria aveva degli elevati standard morali, aveva un ethos condiviso che avrebbe dovuto guidare l’azione politica. Questa piccola comunità rappresentava per Arendt l’autentica promessa dello spirito rivoluzionario del XX secolo.
Che cosa rimane oggi di Rosa Luxemburg? Tramontate le velleità di emancipazione, liberazione, ispirate dai principi del socialismo, rimane una concezione molto ampia del concetto di vita e di vivente dove le «lacrime umane» stanno insieme alle nuvole, agli uccelli, alle piante. Significativa la chiusura della lettura arendtiana, quando spera che a Rosa Luxemburg venga riconosciuto prima o poi il posto che le spetta nella storia della politica occidentale. E significativa anche la chiusura della postfazione in cui si riprende l’epitaffio che Luxemburg aveva inviato alla sua segretaria, Mathilde Jacob, in cui scriveva che come le cinciallegre da lei tanto amate, anche lei confidava, dopo un lungo e solitario inverno nella «primavera che viene».