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Romero, «santo della strada». Non era qui la festa

Romero, «santo della strada». Non era qui la festaPapa Bergoglio (e Romero) in piazza San Pietro domenica scorsa – Afp

Intervista Il prete salvadoregno Fredis Sandoval, membro della delegazione giunta a Roma per partecipare alla cerimonia vaticana

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 16 ottobre 2018

La vera festa per la canonizzazione di monsignor Oscar Romero non è stata in piazza San Pietro, ma a San Salvador, tra il popolo che egli considerava suo maestro e profeta. È in questa identificazione totale con la sua gente che risiede l’enorme rilevanza simbolica da lui assunta non solo in El Salvador né solo tra i cattolici, ma in tutto il mondo. Ne abbiamo parlato con il prete salvadoregno Fredis Sandoval, coordinatore della Concertación Romero, membro della delegazione giunta a Roma per partecipare alla cerimonia vaticana.

Come valuta la cerimonia di canonizzazione?

Nella sua breve omelia papa Francesco si è riferito in maniera speciale a Paolo VI e a Romero, esempi di una santità non solo personale, ma legata alla missione cristiana nel mondo post-conciliare. E ancor più breve è stata la formula della loro canonizzazione. Una brevità che contrasta con la lunghezza del processo di santificazione di Romero, che tanti ostacoli e attacchi meschini ha ricevuto dentro e fuori El Salvador e dentro e fuori il Vaticano, anzi più all’interno della Chiesa che al di fuori. In ogni caso, la veglia che ha avuto luogo contemporaneamente in El Salvador è stata di certo più festosa, con applausi, canti e persino fuochi di artificio.

Non sarebbe stato meglio se la canonizzazione avesse avuto luogo a San Salvador?

Questo avrebbe comportato un riconoscimento del binomio inscindibile tra Romero e il suo popolo. Però, dopo l’accanimento che c’è stato contro di lui in Vaticano, la sua canonizzazione significa che c’è stata una rettifica, tanto più importante dinanzi alla rottura dei modelli tradizionali di santità rappresentata dall’arcivescovo. Inoltre, il fatto che Romero sia canonizzato insieme a Paolo VI riveste un grande significato simbolico. Perché Paolo VI è stato il papa che, dinanzi agli intrighi dei vescovi e della nunziatura, gli disse: «Coraggio, è lei che comanda». Io penso addirittura che se Paolo VI fosse vissuto ancora, Romero non sarebbe stato ucciso, perché sarebbe apparso meno isolato. E, se Romero fosse vissuto qualche anno in più, forse non ci sarebbe stata neppure la guerra.

La cerimonia di beatificazione del 2015 ha evidenziato un forte tentativo di addomesticamento della sua figura. Esiste ancora questo pericolo?

Il rischio di trasformare Romero in un santo dell’istituzione è reale, ma solo all’interno della gerarchia. Quella che, alla sua morte, lo ha tenuto nascosto e lo ha coperto sotto una coltre di silenzio. Per il popolo, però, Romero è sempre stato un santo della strada. E anche se ora è stato elevato agli altari, resterà comunque presente nel suo popolo, nella lotta per la liberazione e per la dignità delle vittime.

In che modo il riferimento a Romero può aiutare a leggere la problematica situazione che attraversa El Salvador, soprattutto dopo la disfatta del Fronte Farabundo Martí alle elezioni del marzo scorso?

Romero diceva: se non affonda le sue radici nel popolo, nessun progetto politico potrà avere successo. Uno dei grandi errori del Fronte è stato proprio quello di allontanarsi dalla propria base. E la cosa più grave è che non ha saputo interpretare la sconfitta. Romero diceva che la sinistra rappresentava gli interessi del popolo, era espressione delle sue necessità, una luce e una speranza. Ma il Fronte non ha approfittato dell’opportunità che gli è stata data, scegliendo di flirtare con la destra, i poteri economici, gli Usa.

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